Il nuovo Coronavirus e gli anticorpi sociali della fiducia
Scienza e razionalità
Ciascuno di noi compie ogni giorno una serie di impliciti e anche inconsapevoli atti di fiducia. Prende l’ascensore, la metropolitana, il treno, l’aereo, oppure ordina un bonifico, effettua un pagamento su Amazon o PayPal e manda un’email confidando sul fatto che, dietro ogni suo atto, ci sia un sistema che non è solo fatto di uomini, con i rispettivi saperi e moralità individuali, ma di regole e di istituzioni che garantiscono che la cooperazione tra il sapere degli “operatori” sia sorvegliata e indirizzata a un fine conosciuto e ragionevolmente atteso.
Soprattutto chiunque di noi si fida di tanti sconosciuti, di cui non sa minimamente se meritino davvero la sua fiducia. Non ci si fida infatti di una persona, ma di un “sistema”. Nessuno di noi salirebbe su un aereo, o entrerebbe in un ospedale, manderebbe una email alla fidanzata o digiterebbe on line le credenziali del proprio conto corrente bancario se pensasse che la sua vita o anche solo la sua corrispondenza sentimentale da quel momento in poi sarebbero affidate solo alle competenze o alla lealtà di una singola persona, per quanto asseritamente onesta e affidabile.
Implicitamente, ciascuno di noi ogni giorno confida sulla trasparenza e la controllabilità delle procedure con cui ci sono fornite le prestazioni che lo Stato e il mercato sono in grado di offrirci e che noi siamo disponibili, con le tasse o il portafoglio privato, a pagare. Nella sostanza, ciascuno di noi confida nel metodo scientifico, che non è l’antro (vero o figurato) in cui il sapiente si isola con i suoi alambicchi, per dare un responso sulla verità delle cose, ma è un meccanismo di verifica potenzialmente illimitata della fondatezza delle ragioni che stanno alla base di determinati protocolli di azione o di controllo.
La scienza è sempre, al di là delle apparenze, una questione politica, anzi proprio “democratica”. La ragione per cui la Cina con il Coronavirus ha messo nei guai il mondo non dipende dal fatto che non avesse virologi o epidemiologi di qualità, ma che un sistema politico monopartitico e istituzioni sanitarie dipendenti dal potere politico non erano libere di dire ciò che pensavano, di comunicare ciò che scoprivano e di trarne le conseguenze sul piano operativo. Da molti punti di vista l’epidemia è una esternalità dei meccanismi di funzionamento del Partito Comunista Cinese e dell’inefficienza del potere assoluto.
Noi siamo messi molto meglio. L’Istituto superiore di sanità non smercia verità di partito. Non che questo ci metta al riparo di ogni problema, ma da “questo” problema certamente sì. Però poi ci soni i contagi, i primi morti, il panico diffuso, la corsa alle mascherine… Il nuovo Coronavirus mette alla prova la fiducia nell’efficienza della “scienza democratica”, perché la diffusione del virus in Italia può fare ipotizzare che dietro il comportamento delle autorità politiche e sanitarie del nostro Paese ci sia stato un “di più” di condiscendenza e un “di meno” di intransigenza e che quindi questa emergenza, in fondo, ce la saremmo potuta risparmiare, se i politici fossero stati un po’ meno "venduti ai cinesi" e i tecnici meno "compromessi" con gli interessi del potere politico.
L’etica dei risultati, d’altra parte, è sempre un indicatore razionale di fiducia. Nessuno di noi andrebbe da un cardiochirurgo famoso per l’indice di mortalità dei suoi interventi, quindi è normale considerare istintivamente inaffidabile il sistema sanitario di un Paese che, come il nostro, si è rivelato più esposto al Coronavirus.
Il fatto è che la maggiore diffusione del contagio, di per sé, non dimostra l’inadempienza delle istituzioni sanitarie. Nei giorni scorsi Ilaria Capua, che non solo è una scienziata, ma è una dei pochi suoi colleghi di grido a tenere politicamente la testa sul collo, ha spiegato che livelli più alti di infezione in Italia potrebbero anche essere semplicemente l’effetto di una maggiore efficienza: abbiamo iniziato a trovare qualcosa che abbiamo iniziato, a differenza o prima di altri, a cercare e altre morti per patologie “simil-influenzali” in Europa potrebbero essere da COVID-19, ma non registrate come tali.
Ora che l’Italia è diventata, per ragioni che sono ignote a me come a tutti o quasi, l’epicentro europeo del contagio da Coronavirus, vale la pena di riflettere sul paradosso di un Paese che ha fatto molto più degli altri paesi europei – blocco dei voli diretti, scanner termici negli aeroporti – eppure risulta quello oggi più aggredito. Ovviamente la maggioranza quasi assoluta degli esseri umani residenti in Italia (quorum ego) non solo non è in grado di sapere, ma neppure, se pure si sapesse, di capire davvero cosa sta succedendo. Ma il nostro problema rimane il medesimo: cioè, quello di confidare, pure controvoglia, nel metodo scientifico, cioè nel fatto che la “verità” di quello che sta avvenendo non è la geniale idea di un cervello superiore, ma l’ipotesi più provata e verificata da un “sistema” in grado di provarla e verificarla sulla base di una mole di informazioni che nessuno di noi e nessun singolo scienziato sarebbe in grado non dico di maneggiare, ma neppure di raccogliere.
Purtroppo anche alcuni medici e ricercatori, dall’inizio dell’emergenza Coronavirus hanno avuto la responsabilità di accreditare l’idea che le politiche di salute pubblica, di fronte al rischio di un contagio pandemico, non siano un sistema complesso di processi e di decisioni, ma un campo d’azione in cui il sapere della scienza è ostacolato dai meccanismi istituzionali della politica. Per cui in Italia stiamo discutendo da settimane di una misura – la quarantena obbligatoria per chiunque arrivi, anche di passaggio, dalla Cina – che nessun paese europeo ha mai adottato e che neppure l’OMS fino a oggi ha mai pensato di suggerire (anche al di là della possibilità pratica di realizzarlo e delle conseguenze che ne deriverebbero). Eppure, questo rimedio risolutivo e insieme questo atto di accusa ai governi nazionale e locali non è stato solo propagandato da politici, ma anche da illustri uomini di scienza.
Ovviamente, non si può escludere che tutte le istituzioni nazionali e internazionali cui è affidato il controllo e la reazione al contagio “sbaglino”. Però bisognerebbe sforzarsi di spiegare e invitare i cittadini a sforzarsi di capire che in questi casi non c’è una e una sola risposta giusta, che le strategie rispondono a una valutazione e ponderazione di costi e benefici in cui il valore degli uni e degli altri non è così facile da calcolare e dipende da un insieme di valutazioni discrezionali e opinabili.
Decretare la quarantena obbligatoria per chi arriva dalla Cina, anche da regioni che hanno livelli di contagio analoghe a quelle di alcune zone dell’Italia, non sarebbe a costo zero. Impegnerebbe risorse pubbliche, comporterebbe costi economici ingenti sul sistema produttivo, ridurrebbe gli scambi commerciali. Questo costo da quale beneficio è compensato? Quanti malati e morti evitati “vale” questo sacrificio e con quali conseguenze sulla vita futura e anche sulla stessa efficienza dei servizi sanitari per tutti gli altri malati e le altre malattie?
Non si tratta di un discorso cinico, ma della base di ogni decisione di politica sanitaria. Questo la popolazione deve comprendere e gli scienziati dovrebbero aiutarla a comprendere e accettare. Non sbandierare verità scientifiche apparentemente misconosciute e avversate dalla politica, che l’opinione pubblica non è assolutamente in grado di capire. “Capire” il contagio infatti è esattamente come capire come funziona un ascensore. Tolti alcuni ingegneri e tecnici specializzati nessuno sa né farlo funzionare, né ripararlo quando smette di funzionare. E tutte le idee intuitive e apparentemente auto-evidenti sono sempre sospette, perché la verità scientifica ha la maledetta abitudine di essere capricciosamente contro-intuitiva.
Oggi l’Italia è nei guai – davvero nei guai – non perché non abbia istituzioni sanitarie in grado di controllare il contagio e di contenerlo nei limiti di una rognosa e molesta influenza virale con indici di mortalità allarmanti. L’Italia è nei guai perché sta erodendo il capitale di fiducia e di spontanea cooperazione con le istituzioni politiche e sanitarie. Perché c'è chi passa il tempo a spiegare che è “tutto sbagliato e tutto da rifare”, mettendo in discussione non tanto quello che ha deciso il ministro Speranza, ma la stessa buona fede e competenza degli operatori istituzionali internazionali e nazionali (dall’OMS all’Istituto superiore di sanità), che sono fallibili, come tutti gli umani, ma sono un “sistema”, un insieme di unità operative nazionali e internazionali che si scambiano dati e evidenze, non una persona o un mazzo di persone dotate di acclarati superpoteri cognitivi.
Se mai il Coronavirus, che è una grossissima rogna, potesse servire a qualcosa di buono, c’è da sperare che serva a ripristinare un rapporto razionale con i protocolli scientifici e con la loro natura umana (e quindi emendabile e fallibile) e a tenere a opportuna distanza di sicurezza, con diffidenza, i facilismi e i padreternismi di tutti.