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Sarà che, come scriveva Vladimir Nabokov, «nel proprio passato ci si sente sempre a casa», sarà che una delle lagne perenni della modernità riguarda proprio la perdita di un passato migliore, fatto sta che il richiamo al passato (a quella mitica età dell’oro che la postmodernità e la globalizzazione ci avrebbero rubato) è diventato la principale caratteristica della politica europea degli ultimi anni.

Lo spiega «At Home in One’s Past», il rapporto del think tank inglese Demos, che ha esposto le conclusioni di una ricerca sulla nostalgia nel Regno Unito, in Francia e in Germania, tre dei principali paesi europei nei quali il passato non sembra passare. E c’è da scommettere che, se interpellati, anche moltissimi italiani avrebbero senza dubbio risposto che si stava meglio quando si stava peggio.

Ovviamente, la nostalgia dilagante per tutto ciò che non c’è più è sia una forza politica sia la conseguenza sociale delle scelte politiche compiute. In altre parole, la nostalgia è legata al cambiamento in corso, ai tempi turbolenti che ci è dato di vivere e ai traumi che ne derivano. A livello sociale, è inoltre il risultato dell'impatto negativo, per tanti cittadini, di molte scelte politiche. Per giunta, la nostalgia è (sempre più) stimolata e utilizzata da leader e movimenti politici per i loro obiettivi. L’ascesa dell’Ukip nel Regno Unito, della AfD in Germania e del Front National in Francia riflettono infatti la mobilitazione contro l’ordine mondiale odierno e la promozione del passato come una destinazione sociale desiderabile.

Va da sé che la crescente influenza della nostalgia è all’origine di alcuni problemi. Basti pensare che siamo alla vigilia di un’altra profonda trasformazione economica (la quarta rivoluzione industriale è alle porte) ed è ovviamente importantissimo che i governi e le società europee riescano ad adattarsi con successo al cambiamento che ci attende. Inoltre, un livello di nostalgia endemica, che pretende di restaurare strutture e relazioni del passato, costituisce una reale minaccia al funzionamento delle democrazie liberali e al buon governo. Nell’ipotesi peggiore, la nostalgia può poi determinare forti effetti di esclusione a livello collettivo, alimentando contrasti e divisioni tra gruppi di cittadini, minando la coesione sociale e promuovendo un sentimento di sfiducia nelle istituzioni.

Senza contare che le campagne politiche costruite sul richiamo nostalgico possono accrescere la disaffezione, predicando la restaurazione di un passato utopico e immaginario che tuttavia, nel mondo di oggi, non è possibile (grazie al cielo) restaurare. Per di più, un paesaggio politico modellato sulla nostalgia finisce per mettere in secondo piano proprio quelle narrazioni e quelle scelte politiche oggi più che mai necessarie per rispondere alle mutate condizioni interne ed esterne dei paesi europei, creando l’impressione che si possa resistere al cambiamento invece di provare a governarlo (come bisognerebbe fare).

Si sa che la nostalgia è una strategia comportamentale che si attiva in risposta a paure, delusioni, ansie e incertezze; che aiuta a superare la depressione, a dare un significato ad un presente incerto e a rinsaldare i legami sociali con gli altri. E la sensibilità dei cittadini europei alla politica della nostalgia può essere vista come una risposta alle tendenze destabilizzanti della globalizzazione (con le sue conseguenze economiche, sociali e culturali), che accrescono l’importanza di una visione idealizzata di «casa nostra».

Ovviamene, la narrazione nostalgica è inserita nel contesto storico e culturale di ciascuna nazione, ma come emerge dalla ricerca condotta da Sophie Gaston, da un capo all’altro dell’Europa, gli elementi comuni sono moltissimi. Gran Bretagna, Francia e Germania stanno ovviamente sperimentando trasformazioni sociali, economiche e culturali significative e la profondità del cambiamento in corso è stata per molte persone così alienante che in parecchi non vogliono saperne di guardare al futuro. Ciascun paese vanta tutto un armamentario di narrazioni nostalgiche, alcune delle quali hanno riacquistato importanza oggi che i cittadini non accettano più la dottrina del progresso. E queste narrazioni sono state abilmente utilizzate da politici emergenti di varie inclinazioni ideologiche per infondere entusiasmo alle forze di protesta contro lo status quo e una visione del futuro che sembra relegare le persone in una posizione passiva nel processo di cambiamento.

Dovunque, a trarre vantaggio dalle ansie dei cittadini per la trasformazione in corso sono quelli che promettono di ripristinare il «controllo», non soltanto sull’immigrazione o sulle leggi, ma sul tempo stesso: «il tempo è presentato come una forza selvaggia e senza regole, che può essere inchiodata, riconquistata e tenuta a bada». Va da se che il rischio (il prezzo, cioè, dell’incapacità della politica tradizionale di rispondere a questi sviluppi) è che le nostre società diventino più intolleranti e meno inclusive, finendo per reggersi su una forma di competizione sociale più disperata e pericolosa; mettendo, in altre parole, in pericolo le nostre democrazie liberali.

Il 71% degli inglesi ritiene che le loro comunità siano deperite nell’arco della loro vita e il 55% pensa che le opportunità di lavoro si siano ridotte. Dobbiamo prendere atto che anche nei paesi europei più dinamici, prosperi ed innovativi, ci sono persone che hanno sperimentato un sentimento genuino di «perdita" materiale, in relazione alla sicurezza, alle prospettive, allo status o alla rappresentanza. I governi il più delle volte non ce l’hanno fatta ad accompagnare le persone attraverso il mutamento in corso ed ogni nuova trasformazione economica o sociale ha generato vincitori e vinti. Ma per funzionare, le nostre società hanno bisogno che i cittadini siano aperti al cambiamento e le persone hanno bisogno di essere aiutate lungo il cammino.

È anche vero che molte persone sensibili ai messaggi nostalgici non vivono in aree deindustrializzate dimenticate e che sono addirittura relativamente sicure dal punto di vista economico. Nelle interviste, parlano di uno «stress cumulativo» derivante dal costante adattamento a norme sociali in continua evoluzione e di un ambiente politico che assegna la priorità alla questione del giorno rispetto ai valori di lunga durata. Un ambiente nel quale ogni progresso non è premiato con il ristoro e la soddisfazione, ma invece genera nuove campagne per cambiare radicalmente un’altra serie di norme.

Per queste persone il cambiamento dei costumi e delle abitudini, il politicamente corretto, l’ideologia del multiculturalismo ed il conseguente ammorbidimento del nazionalismo, sono stati enormemente disorientanti. Mentre i diritti e il rango dei gruppi minoritari è cresciuto, hanno avuto la sensazione che il loro status venisse eroso. Per chi ha beneficiato della auspicata apertura e della differenziazione delle nostre società, è difficile pensare alla nostra epoca (liberale) come ad un periodo segnato dalla perdita. Ma per molte persone, la storia nazionale e i pilastri da cui hanno tratto orgoglio e sicurezza, si sono indeboliti. E domande di fondo, sull’orgoglio, il patriottismo, l’identità in un’epoca in cui la comunità non è più definita dalla prossimità fisica, ma dalla vicinanza di valori condivisi, non hanno trovato risposta. E va da se che se la politica progressista non saprà forgiare una nuova narrativa convincente da cui trarre forza, non otterrà il mandato per spingere il paese nel futuro.

Il malcontento evidente nelle nostre società richiede infatti risposte politiche efficaci. Tanto per capirci, servono sforzi trasformativi da parte delle istituzioni e delle imprese per promuovere lo sviluppo locale e rendere le «forgotten communities» posti più attraenti in cui vivere e investire; bisogna pensare a come raggiungere una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro in un’era di impiego precario, garantendo al tempo stesso che le economie restino dinamiche e competitive; serve un impegno a ridisegnare competenze, istruzione e sistemi di welfare per affrontare i cambiamenti che ci attendono nella quarta rivoluzione industriale; servono leader coraggiosi in grado di affrontare questioni spinose, in grado di difendere la libertà di espressione, ecc.

Insomma, siamo sempre lì. L’opposizione non si può regalare allo spread e alle agenzie di rating. Bisogna affrontare le preoccupazioni dei cittadini attraverso una discussione franca e aperta e risposte politiche robuste; bisogna proporre una visione attraente e pragmatica: le persone devono «fidarsi», devono poter «credere» che gli adattamenti sociali, economici e politici che ci attendono permettano loro di guardare al futuro con speranza e non con paura.

Ma per guarire dall’assurda speranza di poter far rinascere un passato largamente idealizzato, bisognerebbe ogni tanto ricordare anche come stavano davvero le cose. Quarant’anni fa, recensendo «L’albero degli zoccoli» di Ermanno Olmi, Beniamino Placido scriveva: «Sono l’ultima persona che possa negare il fascino della cultura contadina (…) Ma le condizioni in cui quella cultura contadina prosperava (per modo di dire) erano terribili e non hanno nulla a che vedere con la rappresentazione raddolcita, levigata e patinata che Olmi ne fa. Le vacche erano sempre magre. I maiali crescevano fra trepidazione e stenti, e spesso combinavano il brutto scherzo di ammalarsi proprio quando dovevano essere macellati. Le galline, così garrule e poetiche, le sterminava regolarmente la moria dei polli. La malaria faceva altrettanto con gli uomini, schiacciandoli tremebondi contro i muri, sul far della sera. Le donne si sfasciavano, squassate dalle maternità ricorrenti. I denti si corrompevano in bocca, inesorabilmente. E con i denti i sentimenti: non è vero che la gente, in quanto più semplice, sapesse volersi più bene. La convivenza affettiva della coppia contadina non aveva niente di dolce. Era aspra, ostile e aggressiva. Se il matrimonio ‘borghese’ - secondo Balzac - è una ‘mescolanza di cattivi umori di giorno, di cattivi odori la notte’, il matrimonio contadino era una mescolanza di ininterrotta di umori rancorosi e di odori soffocanti, di giorno e di notte. Quando gli uomini facevano l’amore con le donne, s’intende. Non sappiamo se livelli superiori di dolcezza erano raggiunti quando gli uomini ‘si sfogavano' con gli animali. Perché pure questo accadeva in quella ‘cultura contadina’, anche se Olmi pudicamente non lo dice».