Perché l'identità transgender non è una 'malattia mentale'
Scienza e razionalità
Il TransYouth Project è una ricerca ancora in corso che intende seguire per vent’anni oltre 300 bambini transgender o caratterizzati da una non conformità di genere per capire come si sviluppa la loro identità.
Finora, i risultati ottenuti - da test diretti e indiretti - mostrano che “lo sviluppo di genere dei bambini in transizione sembra simile allo sviluppo di genere del loro genere-tipico”. In particolare, i primi esiti di questi studi suggeriscono che fin da piccoli, “i bambini transgender hanno un senso del proprio genere forte quanto quello dei coetanei non transgender”. In aggiunta, è emerso che, se sostenuti durante un percorso di transizione precoce, hanno “una buona salute mentale e un’alta autostima”.
Risale a pochi giorni fa, la notizia che la transessualità non è più classificata dall'Oms come malattia mentale. "L'incongruenza di genere è stata rimossa dalla categoria dei disordini mentali dell'International Classification of Diseases per essere inserita in un nuovo capitolo che riguarda le “condizioni di salute sessuale”, ha spiegato l'Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolineando come ormai sia “chiaro che non si tratti di una malattia mentale e classificarla come tale può causare una enorme stigmatizzazione per le persone transgender”.
D’altra parte, ha spiegato ancora l’Oms, la decisione di lasciarla sempre all’interno dell’International Classification of Diseases (ICD), nasce dall'esistenza di un bisogno di cure sanitarie, anche importanti, che può essere soddisfatto solo se la transessualità rimane all'interno dell'Icd stesso.
Nel 2016, all’inizio del percorso che ha portato l’Oms a cambiare la “designazione” della transessualità, un articolo del NewYork Times ne anticipava i termini, dando anche conto del dibattito scientifico in corso: “Rimuovere l'etichetta di salute mentale dall'identità transgender […] significa mandare un messaggio molto forte secondo cui il resto del mondo non considera più la transessualità come disturbo mentale” ha detto Michael First, professore di Psichiatria Clinica presso la Columbia University e principale consulente tecnico della nuova edizione dell’ICD-11.
Uno studio pubblicato lo stesso anno su Lancet Psychiatry, ha rilevato come la maggior parte dei 250 pazienti intervistati in una clinica che fornisce servizi sanitari transgender, a Città del Messico, ha detto di aver “provato angoscia in relazione alla propria identità di genere durante l’adolescenza mentre quasi un quinto di loro di non averla provata”. E, tra coloro che hanno dichiarato di aver sofferto una condizione di disagio o fatto esperienza di disfunzioni al lavoro, a casa o a scuola, quasi tutti hanno attribuito entrambi a come sono stati trattati - rifiutati o violentemente attaccati - più che alla loro stessa identità di genere: “Molti di loro, tuttavia, avevano problemi di salute fisica, probabilmente il risultato di una vita ai margini della società”, in bilico, su piano inclinato che portava dallo stigma alla malattia.
Un gruppo di ricercatori diretti da Damon Centola dell'Università della Pennsylvania a Filadelfia, l’8 giugno scorso, ha firmato un articolo su Science - di cui Mind cita le conclusioni principali - secondo cui per determinare un cambiamento socialmente significativo sia necessaria “una massa critica” che lo sostenga.
“Perché una comunità accetti o adotti un punto di vista che entra in collisione con convenzioni sociali o convinzioni comuni - che si tratti di identità transgender, matrimoni gay, leggi sulle armi o la parità di genere - la minoranza che sostiene quel punto di vista deve arrivare al 25 per cento circa della popolazione. A quel punto si verifica un cambiamento sociale su vasta scala e una prospettiva o un comportamento prima messo all'indice o guardato con diffidenza viene considerato socialmente accettabile”.
Basandosi su una serie di lavori sperimentali condotti negli ultimi dieci anni, Centola e colleghi hanno invece prima sviluppato un modello teorico per la previsione della massa critica necessaria per cambiare le norme di un gruppo, e poi lo hanno testato sperimentalmente su diverse comunità on line.
Da questa serie di test è risultato che, nella maggioranza dei casi, quando la minoranza che spingeva per il cambiamento era al di sotto del 25 per cento del totale, i suoi sforzi fallivano. Ma se arrivava a quella soglia, nella dinamica di gruppo avveniva un brusco cambiamento e la maggioranza della popolazione adottava rapidamente la nuova norma.
Alessandra è meridionale e si è trasferita a Roma per lavoro. È molto espansiva, brillante e bellissima. Alessandra è una donna transgender che non ha ancora terminato il proprio percorso di transizione. Nel frattempo è rimasta senza lavoro.
Tempo fa, ha inviato un curriculum, rispondendo a un annuncio pubblicato su un portale dedicato: “Si trattava di lavorare come commessa in un franchising romano di abbigliamento maschile”. Le fissano un appuntamento e quando Alessandra si presenta, il tizio del negozio non si preoccupa neppure di fingere quello che sarebbe dovuto essere un colloquio di selezione: “Non mi ha fatta parlare. Mi ha semplicemente chiesto, ‘signorina, ma lei conosce il russo?’”.
Alessandra (come non darle torto?) gli ride in faccia. E se ne va, senza girarsi dietro.
Continua a inviare curriculum. Fino a qualche giorno fa, quando la chiamano da un supermercato. Mi ha inviato un sms che diceva: “Ho paura che anche questi possano mandarmi via. E questa volta, non avrò neppure la forza di riderci su!”.
Stamattina, alla cassa del market, c’era lei. Ho finto di dover fare la spesa. Lei mi ha sorriso, felice.