Colonna nuvole

È un assolato pomeriggio di aprile e io mi ritrovo, con gratitudine, a pensare ai capolavori dell’ingegno umano. È in particolare sulla letteratura che sto riflettendo. In effetti, a ben guardare, mi accorgo che sto più prosaicamente pensando alla penna d’oca che Leonardo da Vinci intingeva nel calamaio; o alla macchina da scrivere sui cui tasti batteva Pasolini; o al personal computer su cui probabilmente ancor oggi scrive il premio Pulitzer Philip Roth.

La nostra società ha un rapporto contradditorio con la tecnologia. La produce e la idolatra, la teme e la rifiuta. Per fare un esempio, dobbiamo alla medicina e alle sue scoperte se la vita media nei paesi sviluppati è aumentata così tanto: oggi possiamo aspettarci di vivere mediamente 30 anni in più rispetto a un italiano di un secolo fa, con una qualità di vita nettamente migliore. Eppure ci accorgiamo di un diffuso sospetto nei confronti di medici e farmaci: vogliamo essere guariti ma non ci fidiamo di chi ha gli strumenti per farlo e temiamo gli strumenti stessi. Arriviamo addirittura a rinunciare a proteggere con vaccini i nostri figli da malattie potenzialmente mortali.

Oppure: godiamo tutti dei benefici dell’informatizzazione, sfruttiamo la possibilità di accedere immediatamente alle informazioni che ci servono, ne beneficia anche l’ambiente grazie ad una progressiva dematerializzazione della carta. Ma le implicazioni dello sviluppo dell’intelligenza artificiale ci preoccupano: presto un software potrebbe essere in grado di guidare un auto meglio di noi grazie alla rapidità di elaborazione delle informazioni provenienti dall’esterno e alla velocità di reazione; presto un’AI potrà compiere una diagnosi meglio di un medico grazie ad una banca dati molto maggiore di quella che il nostro cervello può studiare e memorizzare. Questo spaventa e può impedirci di vedere i grandi benefici derivanti dall’applicazione di questi strumenti.

Eppure noi sappiamo bene che non è la tecnologia in generale ad essere un problema, ma l’uso che se ne fa. Le nostre mamme ci hanno insegnato ad usare il televisore in modo responsabile. Noi insegnamo ai nostri figli come usare il cellulare e come non farsi usare. Le preoccupazioni per le novità non sono un’esclusiva del nostro tempo: la pastorizzazione del latte fu accolta con proteste e sommosse, l’introduzione del caffè in Europa fu osteggiata per molto tempo, persino l’autoradio venne inizialmente guardata con sospetto. È una facile scorciatoia attribuire al progresso i nostri mali, ma si tratta di incoerenze tutte nostre, tipiche della natura umana

Tornando alle mie riflessioni sulla scrittura, oggi non ci sogneremmo mai di giudicare un testo dallo strumento che è stato utilizzato per scriverlo, lo valutiamo invece per il suo contenuto. Non ci importa se lo scrittore abbia usato una penna Bic o una Mont Blanc, un Mac o un HP, una macchina da scrivere o l’abbia piuttosto dettato a un segretario. Similmente dovremmo fare per ogni tecnologia.

Grazie alla chimica in agricoltura, che permette di nutrire le colture e di difenderle dagli insetti che se le vogliono mangiare al posto nostro, possiamo fornire cibo sicuro e a buon mercato a un numero di persone inimmaginabile un secolo fa. Eppure assistiamo ad una progressiva demonizzazione della chimica, nonostante sia oggi più sicura che mai (si vedano per esempio a dimostrazione di ciò i dati sui residui di fitofarmaci negli alimenti in UE, oppure quelli italiani). In passato sono stati compiuti errori e leggerezze, inutile tacerlo, ma da diversi anni ormai i controlli e la severità delle procedure di autorizzazione dei principi attivi sono tali da garantire la sicurezza alle condizioni d’uso sia per il nostro cibo sia per l’ambiente.

Tanto forte è la paura della chimica, che nemmeno la politica si permette di andare contro il sentire comune. Lo abbiamo visto in occasione del rinnovo dell’autorizzazione del glifosate: nonostante il parere positivo espresso dalle Agenzie Europee EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) e ECHA (Agenzia Europea per al Chimica), diversi politici europei hanno dubitato della sicurezza d’uso della molecola, minando in modo pericoloso l’autorevolezza delle nostre istituzioni scientifiche pubbliche europee. Un atto irresponsabile e immotivato, che ha visto in prima fila l’europeista Macron e il ministro Martina. Ma non sono i primi a trascurare le valutazioni delle agenzie europee: ogni Governo italiano, di ogni colore politico, ha mancato di dare credito e adeguata diffusione alle valutazioni di EFSA sul mais Bt, per esempio. Come si può pretendere che i cittadini si fidino del lavoro degli scienziati se i politici per primi li screditano?

Esemplare è la vicenda delle biotecnologie che possono essere utilizzate per il miglioramento genetico vegetale. Il fatto che si sia demonizzata una pianta ingegnerizzata che permetteva di evitare trattamenti insetticidi, come è il mais Bt, proprio quando la società chiedeva una riduzione della chimica in agricoltura, è significativo della deriva culturale cui assistiamo. L’opinione pubblica è talmente spaventata dalle possibili conseguenze negative dell’applicazione del progresso tecnologico all’agricoltura da rifiutarsi di prenderne in cosiderazione i vantaggi.
Inoltre, le paure del consumatore sono state usate ad arte da personaggi in cerca di visibilità e da organizzazioni in cerca di vantaggi economici: come riuscire a difendere le molteplici possibilità derivanti dalle biotecnologie in agricoltura quando il clima è così esacerbato?

Aver tollerato per anni gli attacchi al lavoro degli scienziati che vi lavoravano e agli agricoltori che fanno impresa applicando i frutti del progresso nella chimica e nel miglioramento genetico ha causato un danno che è culturale prima ancora che economico. Assistiamo ad un relativismo imperante applicato a qualunque contesto, tale per cui si sente bollare come fake news, come bufala, come falsa e prezzolata la ricerca di prestigiose istitituzioni come la Scuola Sant’Anna e l’Università di Pisa. Il fatto che nessuno si scandalizzi è indicativo di come la priorità sia ormai quella di garantire a chiunque il diritto di tribuna, confondendo opinioni con fatti, risultati scientifici con interessi di parte.

Giunti a questo punto mi auguro che la società nella sua interezza, comprensiva di ricercatori e agricoltori, consumatori e giornalisti, politici e imprenditori, sappia trovare al proprio interno gli anticorpi per reagire e abbandonare questo atteggiamento schizofrenico. È necessario un moto d’orgoglio, un salto di maturità che ci aiuti a porci nei confronti dell’innovazione con il necessario approccio di serena criticità.