Chem Lab TO 069

L'ostilità contro il metodo scientifico è un problema non solo culturale, ma politico. Da lì nasce anche il pregiudizio contro l'industria farmaceutica e i suoi presunti complotti. Una cattiva governance della spesa sanitaria, sensibilmente più bassa della media dei paesi Ue più avanzati, non favorisce né crescita né innovazione in un settore decisivo per la competitività italiana. Parla Francesco Di Marco, amministratore delegato in Italia di Amgen, società leader nel settore delle biotecnologie.

Qual è il suo giudizio sull'attrattività dell'Italia per gli investimenti diretti esteri? Più nello specifico, crede che il quadro normativo, burocratico e fiscale italiano rappresenti un ostacolo per l'attività di una multinazionale che opera nel nostro Paese?

Mi piacerebbe iniziare con una nota positiva. A livello potenziale l'Italia resta uno dei paesi più attrattivi al mondo; è pur sempre il terzo mercato europeo come popolazione. Tuttavia esiste un - chiamiamolo così - problema di sistema che impedisce al Paese di utilizzare appieno il proprio potenziale di mercato. Nel nostro settore il problema principale è l'assenza di regole certe e stabili nel tempo. In Italia, infatti, le regole cambiano di frequente e spesso non sono chiare. Un'impresa multinazionale, a maggior ragione se opera nel settore delle biotecnologie farmaceutiche, ha bisogno di una programmazione di lungo o lunghissimo periodo per decidere come e dove investire. Ci sono segnali, timidi ma benauguranti, da parte dell'attuale governo, che sembra per lo meno consapevole del problema.



Le capiterà che qualcuno in Amgen le chieda: "Cosa sta succedendo in Italia?" Lei come risponde da italiano ai suoi colleghi non italiani? Come sarà la situazione in Italia nei prossimi anni?


Rispondo che la situazione sta migliorando. Parlo di segnali positivi, incoraggianti. I miei interlocutori, peraltro, sanno bene cosa è successo in Italia prima e dopo il 2011. Stando al nostro settore, c'è una discussione confusa - ma c'è, e la cosa è positiva - sulla modifica dei tetti alla spesa farmaceutica ospedaliera, che oggi non sono realistici, infatti vengono regolarmente "sfondati" (il disavanzo è di 1,7 miliardi) e poi di fatto scaricati sulle aziende fornitrici.



In generale, però, a frenare l'investimento in Italia c'è solo un problema di regole, o anche di fondamentali economici?


Certo esistono problemi più strutturali, quali il costo e la produttività del lavoro. Però per quanto ci riguarda - ed è un discorso che può essere esteso anche ad altri settori - il problema principale è quello delle regole e della politica degli investimenti nel settore della ricerca.



E chi dovrebbe investire?


Io credo molto, anche in questo ambito, nel ruolo delle imprese, e penso che il pubblico dovrebbe fertilizzare il terreno, creare l'humus favorevole, per l'investimento privato. Bisogna evitare che i pochi fondi disponibili finiscano ai soliti ignoti, che fanno i soliti progetti. L'Italia oggi investe non solo poco, ma anche male.



Abbiamo visto che in questi anni l'export italiano ha rappresentato un driver di crescita o di tenuta anche nelle fasi recessive. Eppure, se uno guarda nel dettaglio i dati, ai primi posti non c'è il cibo, né la moda, né l’arredamento. Ci sono i macchinari industriali e subito dopo la farmaceutica. Quali sono i punti forti di questo successo del settore e quali i punti deboli?


I punti forti sono una importante presenza, direi quasi storica, di industrie d'eccellenza che hanno investito nel paese e di imprenditori italiani coraggiosi che continuano a sostenere il comparto chimico farmaceutico. Purtroppo quello che manca sono gli investimenti sulle nuove tecnologie: oggi in Italia si produce tanta "chimica", cioè farmaci vecchi e non protetti da brevetto. È un'industria debole, che è importante continuare a mantenere, ma non è possibile continuare a vivere di rendita. Se non spostiamo la visione a cinque, dieci o venti anni e non facciamo partire in Italia anche la produzione biotech, presto non riusciremo più a produrre quel fatturato e quell'export che oggi la farmaceutica garantisce all'Italia. Non ha senso accontentarsi di rimanere forti a produrre macchine da scrivere nell'era dei computer.



Per una persona comune non è semplice comprendere la differenza tra la chimica farmaceutica e i farmaci biotecnologici. Come gliela spiegherebbe?


Io inizierei con una provocazione, dicendo che il farmaco biotecnologico è un farmaco “bio”, quasi organico. Vuol dire che è costruito con gli stessi “mattoni” con cui è costruito il nostro organismo e interagisce in maniera molto specifica con ciò che provoca le malattie. Il farmaco biotecnologico è costruito solitamente per fare un solo "lavoro", mentre il farmaco chimico può avere la tendenza ad agire su più piani, e quindi avere anche degli effetti secondari più importanti. Il farmaco biotecnologico ha un'efficacia più specifica e può essere degradato dal corpo ed eliminato in maniera estremamente naturale, quando abbia esaurito il proprio effetto. Le prime applicazioni biotecnologiche in campo farmaceutico riproducevano degli enzimi, delle proteine, delle parti del nostro corpo che noi non riuscivamo più a produrre, come l'insulina ad esempio. Oggi invece, grazie all'ingegneria genetica, siamo in grado di disegnare delle molecole totalmente nuove, che vanno a interagire con uno o più aspetti della patologia su cui si deve intervenire.



Da italiano, oltre che da operatore di settore, sarà preoccupato per questa vulgata antiscientista che sta prendendo piede nel Paese.

Da ricercatore mi sono formato fuori dall'Italia. In Italia è come se si continuasse a processare Galileo. Ed è paradossale perché proprio tra gli italiani vi sono stati i più grandi protagonisti della rivoluzione scientifica. L'avversione alla scienza è un fattore di crisi, anche economica. Per uscirne, è necessario ristabilire il ruolo sociale e lo statuto morale del sapere scientifico. Ci vuole un grande impegno educativo, a partire dalla scuola e dall'università: spiegare cosa è veramente la scienza, cos'è un'ipotesi, come si fa a provarla, e perché nella scienza non esistono verità assolute. Questa incapacità di riconoscere le caratteristiche e valutare il valore della ricerca scientifica è il nostro problema maggiore, sia dal punto di vista culturale che politico.



L'avversione alla scienza non sembra annidata solo nei settori della società o dell'elettorato meno istruiti. Né mancano politici con alle spalle studi e lauree scientifiche - non una cultura umanistica un po' ammuffita e ottocentesca - che organizzano crociate contro gli OGM, l'olio di palma, i vaccini e denunciano i "complotti" che starebbero alle spalle della ricerca in questi settori.


Intanto bisognerebbe avere il coraggio di dire che incitare a non vaccinare i bambini è un crimine, perché crea un'emergenza sanitaria che in un modo o nell'altro ricade su tutti i cittadini. Il pregiudizio antiscientifico è trasversale, perché una politica debole e disimpegnata su questa battaglia non fa che amplificare una somma di pregiudizi e sentimenti personali. Si pensi agli OGM, ma anche alla sperimentazione animale, che rimane ancora assolutamente necessaria, e che è disciplinata in modo molto severo, ma che molti cittadini rifiutano illudendosi che esistano delle alternative - al momento, invece, inesistenti. In realtà è proprio un problema di educazione alla logica scientifica. Si ha la tendenza a considerare un caso o un'eccezione come se di per sé il suo verificarsi dimostrasse o sovvertisse una regola generale. Si prende, ad esempio, il caso di un bambino che ha avuto, per qualche motivo, una reazione negativa a una vaccinazione e si conclude che non vaccinare è meglio che vaccinare per proteggere la salute dei bambini. Ma basterebbe applicare un banale criterio di verifica per capire che le vaccinazioni hanno debellato malattie che mietevano milioni di vittime, e che i bambini nel mondo muoiono ancora di non-vaccino, non di vaccino.

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L'Europa è di gran lunga il continente che più spende per il welfare in rapporto al Pil; l'Italia è il Paese europeo la cui spesa sociale rimane, malgrado la legge Fornero, più pesantemente sbilanciata sul versante previdenziale. Il risultato è che, come riporta il rapporto Meridiano Sanità elaborato da The European House - Ambrosetti, l'Italia è tra i Paesi europei con la più bassa spesa in rapporto al Pil: il 9,1%, contro la media del 10,3% dell'Ue a 15. Questo ritardo è recuperabile e come?

Un sistema sanitario universalistico come quello italiano ha fatto molto per la salute della popolazione. La crisi ha costretto a mettere mano agli equilibri della finanza pubblica, ma anche in precedenza la spesa sanitaria aveva sofferto dure penalizzazioni. In realtà sulla spesa sanitaria, non solo per ragioni demografiche, è ragionevole attendersi un naturale processo di espansione, innanzitutto per finanziare l'innovazione, che vuol dire cure più efficaci e migliore qualità della vita. Con il 2010-2011 la forchetta tra la spesa italiana e quella europea, che già era evidente, si è andata allargando. Questa non è una tendenza virtuosa. Ci siamo cascati un po' tutti, perché abbiamo accettato di parlare di sostenibilità del sistema in termini puramente finanziari. Un sistema è sostenibile anche quando riesce a far fronte a quelli che sono i bisogni della popolazione; la realtà è che oggi noi stiamo sotto-finanziando un sistema che quindi non è più sostenibile. Quello che è evidente nella spesa sanitaria diventa macroscopico nella spesa farmaceutica, che è una delle poche spese dello Stato che ha un montante fisso, fissato in percentuale sul totale della spesa sanitaria. 



E, tra i massimali imposti alla spesa farmaceutica, c'è quello della spesa farmaceutica ospedaliera, che è quella che finanzia i farmaci più innovativi, per i bisogni sanitari più drammatici. Giusto?


Sì, su quella è stato artificialmente imposto un tetto del 3,5%, quando la spesa era già al 4,5%, e ora sta arrivando al 5,5%. Paradossalmente, la farmaceutica ospedaliera, che è molto penalizzata, è la parte della spesa sanitaria più efficiente, perché questi farmaci sono somministrati in base a piani terapeutici che garantiscono la piena appropriatezza della cura. Si sa quali sono i pazienti che ne hanno diritto, e si sa come selezionarli. L'intera procedura è sottoposta all'autorizzazione e alla vigilanza dell'Aifa (Agenzia italiana del farmaco). Ma, a quel punto, i fondi per curarli ci devono essere. Fino ad ora non si è affrontata la tematica - ci sono in ballo quasi 2 miliardi, a partire dal 2013 - ora ci si sta preparando ad affrontarla. Però è veramente importante risolverla. Le innovazioni scientifiche sono programmabili. L'Italia siede all'EMA (European Medicines Agency) dove vengono autorizzate le nuove terapie. Sa in anticipo quali farmaci stanno arrivando e qual è il loro valore. Un paese che non è in grado di pianificare il proprio bisogno farmaceutico dei prossimi anni è difficile che diventi attrattivo per gli investimenti di una multinazionale del farmaco, che è incentivata a scegliere stati dove il mercato segue una logica più coerente.



Qual è la sua opinione sulle proposte di revisione della governance italiana?


L'importante è che qualcosa venga fatto urgentemente. Una governance perfetta tra vent'anni non servirebbe a nulla. Se i bisogni sanitari degli italiani sono riconosciuti - il che non significa che si riconosce che sono malati, ma che hanno diritto a trattamenti innovativi e più costosi - i finanziamenti devono essere coerenti: per quest'anno, e per gli anni futuri. Il fondo deve essere capiente e la sua distribuzione non iniqua. Cosa intendo dire con “iniqua”? Si è parlato ad esempio di una proposta del MISE per creare un fondo per i farmaci oncologici e per quelli che riguardano le patologie del sistema nervoso centrale, finanziati con un meccanismo ad hoc, non all'interno del montante della spesa farmaceutica generale. Se uno guarda alle due principali cause di morte della popolazione italiana trova i tumori e le malattie cardiovascolari, che sono secondo me le emergenze più importanti. Amgen ha farmaci in entrambi i campi, per chiarire subito che parlo in conflitto di interesse. Però è rilevante il criterio di priorità. Quello delle principali cause di morte mi sembra il più ragionevole. La seconda questione è come si possa riempire questo fondo, perché è facile parlare di soldi che non ci sono. Si parla di ulteriori accise sui tabacchi - una proposta che secondo me manca un po' di fantasia - ma la discussione è aperta.



Qualcuno potrebbe dire: sono capaci tutti a prevedere che il finanziamento di un fondo del genere arrivi attraverso nuova tassazione, qualunque essa sia, fossero anche le accise sulle sigarette. Noi come rivista abbiamo un'impostazione pro business, pro mercato, ma anche pro libertà economica... Non è forse necessaria una reinterpretazione del concetto di universalità, che consenta di recuperare in parte i fondi mancanti attraverso una razionalizzazione della spesa sanitaria? Non ci sono forse dei farmaci importanti, di grande diffusione e basso prezzo, di cui non ha più senso prevedere la copertura pubblica per tutti?


Va precisato - e qui bisogna essere molto realistici - che questo andrebbe a toccare proprio la farmaceutica italiana, che è comunque quella farmaceutica che ha aumentato l'export negli anni passati e ha contribuito ad aumentare il PIL. Ciò detto, io credo molto nella responsabilizzazione dei cittadini anche rispetto a bisogni e consumi sanitari. La compartecipazione dei cittadini alla spesa farmaceutica, in base al reddito, sarebbe ampiamente giustificata anche all'interno di un sistema universalistico. Peraltro, la deresponsabilizzazione riduce la consapevolezza dei cittadini, e li porta ad abusare non solo di prestazioni a carico dello Stato, ma anche di quelle a carico loro. Ci sono un sacco di visite specialistiche fatte nel privato a costi esorbitanti e del tutto insensate in una logica, anche individuale, di programmazione.



D'altra parte lo scarso accesso a strumenti assicurativi, combinato con l'ampio ricorso alla sanità privata, crea il massimo dell'inefficienza. Ci sono in Italia 27 miliardi di euro di spesa sanitaria privata non intermediata, né da assicurazioni né da operatori specializzati, che sono una sorta di tassa sull'inconsapevolezza.


A chi non è capitato di vedere l'illustre professore che ha lo studio davanti all'ospedale pubblico, incassa la parcella per la visita privata e garantisce magari una corsia preferenziale per gli esami nella struttura pubblica in cui dirige un reparto? È un caso in cui i costi vanno allo Stato e i profitti al privato e il paziente paga tutto, direttamente o indirettamente, molto più di quanto potrebbe fare in un sistema più coerente. Vorrei però tornare alla questione da cui eravamo partiti, parlando di errori nella programmazione sanitaria. Siamo solo agli inizi, agli albori di quello che è il secolo delle biotecnologie. Stiamo solo adesso scoprendo dei farmaci che andranno a rivoluzionare in maniera totale il trattamento e la speranza di vita del paziente. Il fatto che in Italia esista un sistema centralizzato di piani terapeutici autorizzati permetterebbe in teoria di utilizzare questi strumenti in maniera ponderata. Faccio un esempio. Un farmaco biotecnologico contro i rischi cardiovascolari non è un farmaco per tutti. Se uno ha un problema di colesterolo deve iniziare a mangiare sano e fare un po' di sport, poi deve prendere le statine, che non costano niente; ma il paziente grave, che ha già avuto incidenti cardiovascolari, può entrare in questo piano.

Sulla sanità, come sulle pensioni, rischia di spezzarsi il legame di solidarietà sociale e intergenerazionale. L'invecchiamento della popolazione e le migrazioni rendono l'Europa e l'Italia più insicure del proprio futuro e più gelose dei propri diritti. La fine della stagione della spesa in crescita costante fa apparire quello alla salute come un diritto a rischio e gli ospedali come delle cittadelle da espugnare, in cui non c'è posto per tutti.


Mi si permetta di spezzare una lancia in favore del personale ospedaliero: noi facciamo molta ricerca clinica in Italia, investiamo tanto: lo scorso anno sono stati erogati 9,5 milioni di euro con il coinvolgimento di 305 centri. Fare ricerca clinica su farmaci innovativi in un centro italiano porta qualità alla struttura, che è coinvolta in un lavoro scientifico importante, ma anche risparmi. Il blocco del turnover e la precarizzazione del personale deteriora la qualità delle strutture obbligandole a un lavoro immane per resistere. Noi ne siamo testimoni diretti. E bisogna considerare che al centro del problema c'è sempre un paziente, che per definizione non può aspettare. Io dico sempre all'interno dell'azienda: quando noi, con un farmaco, arriviamo sul mercato in ritardo di un anno possiamo calcolare esattamente quanti pazienti, durante quell'anno, non hanno potuto usufruire della terapia. Il cosiddetto "turismo sanitario", che oggi vede molti italiani spostarsi da una regione all'altra alla ricerca delle cure o dell'intervento di cui hanno bisogno e che non viene loro assicurato nei tempi e secondo la qualità richiesta, potrebbe anche riprodursi dentro il perimetro dell'area Ue. E ci si potrebbe attendere presto delle barriere contro questo "turismo sanitario". Ma si torna sempre a quello che per me è il punto di partenza e il nodo di fondo. Per migliorare la qualità della sanità in Italia bisogna programmare meglio la spesa per garantire l'innovatività delle cure, a partire da quelle farmacologiche.



Il concetto di innovatività è stato il filo conduttore di questa intervista. Ma come possiamo definirlo?


Innovativo è ciò che è nuovo. Ma ovviamente non basta la novità a rendere innovativo un prodotto. Il grado di innovatività è il beneficio aggiuntivo che esso porta. Con un beneficio aggiuntivo minimo il farmaco è minimamente innovativo; se il beneficio aggiuntivo è importante, allora è altamente innovativo. Sembra una cosa banale, ma non lo è. Infatti non è mai facile mettersi d'accordo sul punto quando si va a trattare con gli organismi che devono riconoscere il "prezzo giusto" all'innovatività.