Troppo facile pretendere certezze dalla scienza. La sfida futura, per chi ha a cuore un rapporto sano tra scienza e società, richiederà di fare i conti con l’incertezza, e con i rischi che ne derivano.

Lantin Einstein

'Io gli ho sparato, ma sono stati i suoi medici a ucciderlo': disse così l’attentatore del ventesimo presidente degli Stati Uniti, James Garfield, nel corso del processo che lo avrebbe portato alla forca. Quella linea di difesa non convinse i giudici ad assolverlo né ad attenuare la sentenza, anche se già all’epoca moltissimi medici si erano dichiarati convinti che i reiterati interventi per rimuovere l’introvabile secondo proiettile avrebbero comportato molti più rischi che possibili benefici per l’illustre paziente.

La storia della morte di Garfield, che nel 1881 rimase in carica solo per pochi mesi, trascorsi in gran parte in un letto affidato ai migliori luminari dell’epoca, offre moltissimi spunti di riflessione a chi si interroga oggi sul rapporto tra medicina e società, tra benefici, rischi e promesse non mantenute.

C’è il disaccordo tra colleghi risolto dal più spregiudicato tra tutti (che – ironia della sorte – si chiamava Doctor). C’è la riluttanza diffusa ad accettare una teoria rivoluzionaria che altrove si è già fatta strada: la teoria dei germi su cui il chirurgo britannico Joseph Lister aveva pubblicato i primi articoli su Lancet nel 1867, circa 14 anni prima. C’è anche l’approccio ipertecnologico sperimentale, promosso dal famoso inventore Alexander Graham Bell: un approccio promettente nel cercare di individuare il corpo estraneo con un metal detector, ma nei fatti applicato malamente, e senza esito, al letto del paziente. C’è poi il tribunale poco interessato alle “verità” della scienza, e ci sono i media: Bell era stato infatti solleticato dalla lettura dei giornali, già allora pieni di opinioni e commenti non sempre ben informati (del genere che probabilmente oggi tanti ascriverebbero alla “Google University”) e di “soluzioni a portata di mano”.

Già rilevante, allora, fu il ruolo dei media – capaci di influenzare e a loro volta soggetti all’influenza più o meno maliziosa, e più o meno consapevole, esercitata da tutti gli attori sociali – che oggi è probabilmente ancor più determinante, in uno scenario in cui il collasso del tradizionale giornalismo della televisione e della carta stampata favorisce il ricorso irresponsabile a esagerazioni e a isteriche (o falsamente isteriche) grida al lupo, basate su una diffidenza generalizzata che spesso viene presentata come unico rimedio contro l’acquiescente copia-incolla di materiali promozionali spacciati per notizie.

Un caso esemplare viene dalla recente polemica innescata da un servizio della trasmissione di Rai Tre “Report”, che alcune settimane fa ha sollevato un polverone allarmistico e molto confuso su presunti effetti collaterali gravi della vaccinazione contro il Papillomavirus (HPV), da alcuni anni raccomandata alle preadolescenti come misura di prevenzione di alcune malattie a trasmissione sessuale e soprattutto di alcuni tumori, tra cui quello della cervice uterina.

Al centro dell’inchiesta, le testimonianze di alcune ragazze che dopo la vaccinazione riferivano di aver cominciato ad accusare sintomi più o meno gravi, secondo loro sottovalutati dai medici e non segnalati alle autorità sanitarie deputate alla farmacovigilanza (l’attività che prevede la raccolta delle segnalazioni e la ricerca approfondita di un possibile legame tra i sintomi e appunto la vaccinazione). Analoghe denunce da parte di ben 60 ragazze, che a detta dei loro medici soffrivano a causa del vaccino HPV, erano state oggetto già due anni fa di un’inchiesta dell’importante quotidiano canadese “Toronto Star” che nel titolo di apertura della prima pagina parlava del ”Lato oscuro di un farmaco mirabolante”.

Il messaggio allarmistico, in Italia come in Canada, ha suscitato una forte presa di posizione di numerosi scienziati e delle autorità sanitarie: “Dato il potere del vaccino HPV di prevenire malattie e morte, il lungo articolo del Toronto Star che sembra suggerire che il vaccino causa danni è preoccupante e deludente. Anche se l’articolo afferma al quinto paragrafo che “non ci sono prove che mostrino che il vaccino abbia causato alcun decesso né alcuna malattia” la sua litania di storie dell’orrore e il suo tono insinuante danno l’impressione errata che sia stato il vaccino a causare quei danni. Purtroppo questo articolo può facilmente portare i lettori a dubitare sia delle prove scientifiche sia delle raccomandazioni delle autorità sanitarie” si leggeva in un commento – che anche grazie all’intervento dello Science Media Center canadese era stato sottoscritto da 65 esperti di sanità pubblica – uscito sul quotidiano pochi giorni dopo la controversa inchiesta.

Dopo aver preso atto delle critiche, la direzione del quotidiano di Toronto ha diplomaticamente difeso l’operato dei giornalisti, ma ha anche preso una decisione senza precedenti: “Rimaniamo convinti di questa inchiesta. Tuttavia, abbiamo concluso che in questo caso la presentazione dell’articolo ha creato confusione tra aneddoti e dimostrazioni scientifiche. Per questo motivo, l’inchiesta sul Gardasil sarà rimossa dal nostro sito” si legge nella nota pubblicata dalla direzione del quotidiano.

Le principali critiche rivolte alla trasmissione di Rai Tre – cui è stato anche fatto notare che alcune cifre riportate al grido di “I conti non tornano” erano state gravemente fraintese – erano grosso modo analoghe, ma la risposta è stata ben diversa: alla fine della puntata della settimana successiva, il responsabile della trasmissione ha riferito brevemente delle critiche disordinatamente piovute da ogni parte, salvo poi giocare nuovamente la carta “insinuante”: a lui e alla redazione alcuni conti continuano a non tornare.

Forse sarebbe andata diversamente se l’inchiesta canadese fosse rimasta sul web in bella vista, accompagnata però da un testo di avvertimento e da tutte le spiegazioni del caso, come suggeriva per esempio di fare il sito “Retraction Watch”, specializzato nei casi in cui sono le riviste scientifiche a ritrattare quanto pubblicato: in quel caso la prassi vuole che il testo continui a essere reperibile, ma con una chiara segnalazione che spiega perché non meritava di essere pubblicato, e invita a diffidare del suo contenuto.

La questione di fondo riguarda la fiducia, e l’esistenza di meccanismi di controllo efficaci e tempestivi che permettano di fidarsi senza per questo rinunciare al senso critico, ben sapendo che qualsiasi sistema di allarme prima o poi scatterà a sproposito: “I media e i comunicatori professionisti hanno un ruolo importante non solo come partner in tema di sicurezza, ma anche nel valutare con attenzione il funzionamento dei sistemi di vigilanza” spiegava già nel 2009 la “Dichiarazione di Erice” sulla farmacovigilanza pubblicata sul British Journal of Pharmacology (cui l’autore di questo articolo ha contribuito). “Occorre esplorare nuovi modi per cooperare con i media come professionisti alla pari (“professional equals”) per collaborare alla diffusione regolare al pubblico di informazioni sulla sicurezza dei farmaci che siano equilibrate, comprensibili, affidabili e interessanti, a prescindere da specifici annunci o segnalazioni di problemi o di crisi”.

Un dialogo tra pari, dunque, nel segno della responsabilità e della volontà di provare a fare i conti con i dettagli, e con le sfumature, come solo il giornalismo specializzato può ambire a fare, senza però necessariamente sposare in tutto e per tutto il punto di vista dell’interlocutore, poiché ciascuno è chiamato a fare il proprio mestiere rispondendo all’etica della propria professione. Con la consapevolezza che quando c’è il timore che siano in ballo vite umane forse messe a repentaglio dall’incompetenza o dalla ricerca del profitto è ancor più difficile decidere se fidarsi di più dei dati presentati da chi lancia l’allarme o da chi cerca di spiegare, contestualizzare, rassicurare: “L’opinione maggioritaria tra i professionisti della sanità di tutto il mondo è che i mass media sistematicamente sbaglino nel descrivere nella giusta luce la salute, la sanità e in generale la pratica della medicina. Ma è un’opinione giustificata e corretta? Più la stampa appare responsabile, meno il pubblico generale sembra apprezzarla. La gente non sembra interessata al resoconto diretto dei temi di salute; i media devono mantenere il proprio pubblico, e le controversie aiutano a vendere”.

Può sembrare il discorso cinico di un navigato giornalista, ma è invece una importante presa d’atto da parte della rivista medica inglese Lancet, in un editoriale pubblicato nel 2009. “Il giornalismo responsabile non dovrebbe pesare unicamente sulle spalle dei giornalisti, ma anche degli editori, degli scienziati e dei professionisti della sanità” proseguiva l’editoriale, citando positivamente l’esperienza degli Science Media Centre, un’istituzione non profit ideata in Inghilterra e oggi riunita in un network internazionale, che fornisce assistenza ai giornalisti sia realizzando e diffondendo con estrema tempestività monografie, schede, dati statistici, bibliografie sulle tematiche più controverse, sia facilitando le interazioni tra giornalisti ed esperti qualificati (il progetto italiano, in cui pure l’autore è coinvolto, è da tempo fermo alla fase esplorativa). “Il futuro del giornalismo di salute dipenderà dal lavoro comune di scienziati, medici e mass media per assicurare l’interpretazione responsabile della ricerca scientifica e medica, e quindi promuovere la salute su scala globale” concludeva l’editoriale.

L’interpretazione responsabile è sempre più necessaria, perché, a dispetto della visione manichea sostenuta da molti scienziati e medici secondo cui la scienza è per definizione rigorosa e per definizione offre certezze su cui si può contare, le ragioni per usare cautela e circospezione rimangono molte.

Un tema delicato è quello della conoscenza ancora approssimativa degli strumenti statistici da parte di molti ricercatori, per cui troppi studi vengono smentiti da studi successivi, anche se magari nel frattempo sono stati usati per immettere un nuovo farmaco sul mercato (oltre un terzo delle approvazioni da parte della FDA americana è basato su un singolo studio).

C’è poi l’uso furbesco di concetti come il rischio relativo, che tipicamente fa apparire come molto efficaci anche farmaci che in realtà non incidono granché sulle probabilità di ammalarsi, o di guarire. Un farmaco che riduca un rischio per esempio del 50% può sembrare molto significativo, ma lo è molto meno se in termini assoluti quel rischio è pari a due su un milione, e quindi con il farmaco si dimezza a uno su un milione. In altre parole, in un caso come quello dell’esempio, volutamente esagerato, per evitare un evento occorrerebbe dare il farmaco a un milione di persone (è il cosiddetto “number needed to treat”, “numero che occorre trattare”) per prevenire un solo evento negativo.

Che dire poi del rischio associato agli errori dei medici? Risale al 1999 un famoso rapporto dell’Institute of Medicine americano secondo cui ogni anno negli ospedali di oltreoceano tra 44.000 e 98.000 ricoverati muoiono a causa di errori medici evitabili. Quelle cifre fecero scalpore, e da allora il concetto stesso di errore evitabile – inizialmente mutuato un po’ meccanicamente dall’ingegneria aeronautica – è stato rivisto, mentre si lanciavano iniziative per ridurre gli atti medici non necessari, con nomi come “choosing wisely” e più di recente “improving wisely”, in qualche modo esponendo i propri difetti in una pubblica piazza spesso pronta a inscenare un processo sommario.

La storia recente ha presentato anche diversi casi in cui la scienza è stata a lungo manipolata sistematicamente dalle industrie. Secondo la paziente e dettagliata ricostruzione dello storico americano Robert Proctor, l’industria del tabacco ha fatto per decenni carte false per negare la relazione tra fumo e cancro con un approccio duplice: ha sviato l’attenzione finanziando studi rigorosi che esploravano possibili cause di tumore alternative al fumo, e in parallelo ha prodotto un’enorme quantità di studi di scarsa qualità metodologica per sollevare un polverone che indebolisse le conclusioni raggiunte dagli studi rigorosi sul nesso tra fumo di tabacco e cancro. Distrazione e negazione: Proctor ha coniato il termine “agnotologia” per la disciplina che oggi studia la produzione di ignoranza.

Nel caso della scienza dei mutamenti climatici, l’industria del petrolio ha fatto ricorso a “mercanti del dubbio”, come la storica della scienza Naomi Oreskes ha definito il variegato gruppo di autoproclamati esperti (in gran parte già visti all’opera in difesa del tabacco) sempre pronti a strumentalizzare gli aspetti non del tutto chiariti della vicenda per mettere in discussione anche quelli ragionevolmente assodati.

La sfida futura, per chi ha a cuore un rapporto sano tra scienza e società, richiederà di fare i conti con l’incertezza, e con i rischi che ne derivano inevitabilmente. L’incertezza intrinsecamente legata all’uso della statistica, su cui anche l’American Statistical Association ha recentemente puntato la propria comunicazione istituzionale, e quella legata al fatto che qualsiasi studio scientifico – per quanto rigoroso sul piano metodologico – si concentra su una parte della realtà osservabile, scartando molti dettagli per mettere a fuoco le parti che appaiono più rilevanti. Ma anche l’incertezza legata alla consapevolezza che una parte enorme della ricerca scientifica è oggi finanziata con soldi privati: per quante cautele si usino, questo comporta – sono studi scientifici a dirlo – una tendenza a ottenere più spesso del dovuto risultati favorevoli agli interessi del finanziatore.

Anche perché molti tra gli studi che non giungono alle conclusioni sperate semplicemente rimangono in fondo a un cassetto, dal momento che nessuno ha interesse a pubblicarli: secondo uno studio apparso nel 2013 sul British Medical Journal, è la sorte toccata a oltre un quarto dei trial clinici che all’avvio erano stati registrati nell’apposito registro internazionale.

È un quadro ricco di complessità, quello dei conflitti di interesse, e forse qualcosa si sta finalmente muovendo per affrontarne tutte le sfumature, e limitarne gli effetti: proprio all’inizio di maggio la rivista Jama della American Medical Association ha pubblicato ben 30 interventi diversi su diverse sfaccettature dei molti possibili conflitti di interessi nella ricerca biomedica. Di poche settimane precedente è la decisione della National Library of Medicine di arricchire il database PubMed (che permette di consultare gli abstract di tutti gli articoli della letteratura biomedica) aggiungendo appunto le dichiarazioni di conflitti di interesse degli autori, che in precedenza andavano cercate una a una sulla versione estesa di ciascun articolo, consultata da una esigua minoranza dei ricercatori, e da pochi, assai motivati giornalisti scientifici.

Se è vero insomma che da sempre la riflessione sui limiti della scienza – e sui rischi che ne derivano – fornisce armi ai complottisti e agli ideologi antiscienza più o meno foraggiati da interessi commerciali, è altrettanto vero che qualunque tentativo di evitarla o di sminuirne la portata non fa che fomentare la diffidenza, peggiorando la contrapposizione ideologica. Per invertire questa tendenza non esiste una ricetta facile: anche la National Academy of Sciences americana ha concluso che la ricetta basata sul cosiddetto “deficit model” – per cui è necessario e sufficiente presentare al pubblico i dati scientifici su cui gli scienziati basano le proprie conclusioni per rassicurarli e convincerli – non funziona, e può anzi acuire l’incomunicabilità e la polarizzazione.

Perché il dialogo tra scienza e società unisca anziché dividere, spiegano le scienze sociali, è cruciale riportare al centro della discussione anche elementi che l’approccio scientifico è portato a considerare un dettaglio poco rilevante, o comunque a escludere – almeno inizialmente – dalla propria indagine.

Oggi siamo abituati a leggere cifre e percentuali con tanto di decimali, senza accorgerci che alle volte si tratta di un esercizio che un articolo del New England Journal of Medicine ha definito nel 2013 una “puntigliosa quantificazione dell’amorfo”: un esercizio che quando si parla di prognosi è non solo inutile ma potenzialmente dannoso, perché camuffa l’incertezza, che dovrebbe essere al centro della riflessione, certo non semplice, tra medico e paziente. Una riflessione che quando esce dal rapporto personale e investe il dibattito pubblico diventa persino più complessa e delicata, ma è sempre più urgente e necessaria.