Mantua microscopio 

C’è una tempesta, anzi, un uragano, che sta travolgendo il mondo della ricerca biomedica, all’insaputa del grande pubblico, quasi fosse qualcosa che interessa solo pochi addetti ai lavori. Ne ha accennato il Manifesto, ne ha riferito Wired, ma per il resto, sui grandi mezzi di comunicazione, nemmeno una parola. In apparenza, d’altra parte, quella di questi giorni sembra una vicenda banale: l’espulsione di un ricercatore danese, spesso controcorrente, noto per il suo carattere non facile, dal Governing Board di un’organizzazione internazionale, la Cochrane, di cui la maggior parte dei cittadini nemmeno conosce l’esistenza.

Forse una questione personale, certo non una storia da prima pagina. Eppure, la crisi che ne è derivata riguarda al contrario alcune delle questioni centrali del nostro tempo, definito da qualcuno, a mio parere impropriamente, l’era della “post-verità”. Riguarda tutti soprattutto perché l’episodio potrebbe essere sintomo, e insieme concausa, di un inarrestabile smottamento del sistema, del fallimento di un tentativo di produrre risultati scientifici che, attraverso un lavoro di ricerca rigoroso e indipendente, si avvicinino il più possibile all’idea di “verità”.

Potrebbe rivelarsi una crisi che riguarda l’affidabilità dei dati scientifici sulla base dei quali le autorità sanitarie, i medici e i singoli cittadini prendono le loro decisioni nel campo della salute, ma che ha a che fare anche con i rapporti con le aziende farmaceutiche, la trasparenza e la libera discussione tra esperti competenti. Una crisi che, se non sarà governata con saggezza, potrebbe minare ulteriormente la fiducia della società nella scienza, almeno in campo medico. L’effetto sarebbe tanto più pesante in Italia dove, negli ultimi anni, la strategia per recuperare credito rispetto ai movimenti “pseudoscientifici” consiste nel cercare di far passare al pubblico l’idea di una scienza dogmatica, fatta di certezze. “Lo dice la scienza” è diventato un mantra. Lo sgretolamento di questa costruzione potrebbe quindi avere conseguenze imprevedibili, tali da ricadere sulla salute di tutti.

 

La bufera di Edimburgo

Ma partiamo dai fatti. Il caso è scoppiato a Edimburgo, in un piovoso giovedì di settembre, mentre la città scozzese si preparava a ospitare il 25° Cochrane Colloquium, l’incontro annuale dei rappresentanti della Cochrane appunto, un’iniziativa internazionale finalizzata a rendere sempre più solide le prove su cui si prendono le decisioni in medicina. Motto dell’evento era “Cochrane for all: better evidence for better health decisions”, che si potrebbe tradurre come “Cochrane per tutti: prove scientifiche più solide per migliori decisioni nel campo della salute”, una buona sintesi di quel che l’organizzazione cerca di fare da 25 anni con il suo lavoro.

Per l’occasione era prevista una riunione del Governing Board dell’organizzazione: 13 membri, tra cui alcuni responsabili di centri nazionali o regionali, come Peter Goetzsche, a capo del Nordic Cochrane Center di Copenaghen. Il ricercatore danese da molto tempo era in conflitto con i nuovi vertici dell’organizzazione, accusati di essere sempre più conniventi con gli interessi economici che girano intorno alla sanità. Prima le sue analisi che mettevano in dubbio l’efficacia degli screening mammografici. Poi l’attacco diretto e violento alle aziende farmaceutiche, soprattutto quelle che producono psicofarmaci, culminato nel 2013 con un libro dal titolo che non le mandava a dire (“Deadly Medicines and Organised Crime: How Big Pharma has Corrupted Healthcare”, in italiano “Medicine letali e crimine organizzato: come Big Pharma ha corrotto la sanità”).

Infine, la goccia che sembra aver fatto traboccare il vaso: l’articolo pubblicato sul BMJ - Evidence-Based Medicine con cui all’inizio dell’estate, insieme ad altri due collaboratori, Goetzsche ha messo in dubbio i risultati rassicuranti sulla sicurezza del vaccino anti papilloma virus (HPV), prodotti da un altro gruppo Cochrane solo due mesi prima, di cui anch’io avevo riferito in uno dei miei video. La smentita era inquietante, e si prestava a essere sfruttata dagli antivaccinisti. Era già accaduto lo stesso in passato, quando lo stesso Goetzsche aveva presentato proteste formali sulla procedura con cui l’agenzia europea dei farmaci (EMA) aveva dichiarato sicuro questo stesso vaccino.

Il fatto che il ricercatore avesse avanzato queste obiezioni su carta intestata dell’organizzazione, preso per prova di autorevolezza dagli antivaccinisti, non era stato per nulla apprezzato dai vertici Cochrane. Al di là del contenuto specifico relativo al vaccino, comunque, la controanalisi pubblicata questa estate era anche e soprattutto una chiara accusa ai colleghi di superficialità, se non di malafede, per avere commesso molti errori e soprattutto per aver ignorato nel loro lavoro quasi la metà degli studi sul vaccino anti HPV che, a detta di Goetzsche, era già stato fatto loro presente che avrebbero dovuto considerare.

Tutto questo, e forse altro, di cui non siamo a conoscenza, configurerebbe, secondo i vertici dell’organizzazione, un “cattivo comportamento”, tale da screditare l’organizzazione, e che, secondo il regolamento interno, sarebbe quindi passibile di espulsione. Tutto questo viene notificato a Goetzsche nell’infuocata riunione del 13 settembre. Gli sono concessi pochi minuti per rispondere alle accuse, prima di essere fatto uscire dalla stanza. La cronaca di quel che segue passa solo attraverso i racconti risentiti del diretto interessato, che dopo ore di attesa bussa per recuperare la giacca lasciata all’interno e alla fine è costretto a rientrare a spintoni, solo per comunicare che intende andarsene, mentre all’interno ancora si discute animatamente del suo destino.

Alla fine, dei 12 membri rimasti nella stanza, uno si asterrà. Basterà così il voto di sei consiglieri per raggiungere una risicata maggioranza tra i presenti (non sul totale del Board, di cui in effetti anche Goetzsche faceva ancora parte, come non manca di rimarcare lui) e decidere l’espulsione del ricercatore danese dal direttivo, espulsione che gli sarà notificata via email. Un dettaglio di forma non irrilevante. Ascoltando in questi giorni i membri storici della Cochrane, si capisce che accanto al rigore scientifico, il valore fondante dell’iniziativa, almeno ai suoi albori, era anche l’amicizia. E tra amici non si fa così.

Non certo per semplice solidarietà, comunque, ma perché in disaccordo con questa decisione, i restanti quattro il giorno dopo firmano le loro dimissioni, seguiti poi, per ragioni tecniche che consentissero al board stesso di restare in carica, da altri due. Il risultato è una netta spaccatura a metà, che potrebbe irradiare crepe a tutta la comunità mondiale, decine di migliaia di membri distribuiti in più di 100 Paesi del mondo, centinaia dei quali, insieme ad altri esperti internazionali e rappresentanti delle associazioni di pazienti, riempivano ignari le vie di Edimburgo mentre si consumava il fatto.

 

Niente di personale (o non solo)

A prima vista, quel che è accaduto nei giorni scorsi potrebbe sembrare una lotta di potere prima o poi inevitabile in un’organizzazione così vasta, forse un fisiologico avvicendamento tra i fondatori dell’iniziativa, legati a un ideale che qualcuno potrebbe considerare ormai superato, e i nuovi responsabili, calati nella realtà di oggi, che ravvedono la necessità di voltare pagina, per affrontare le sfide del nuovo millennio.

Si potrebbe pensare addirittura solo a una questione personale, a un conflitto nato da uno scontro caratteriale. Da un lato c’è Goetzsche, un rigoroso metodologo quasi settantenne: qualcuno lo definisce “assai spigoloso”, qualcun altro non esita a etichettarlo come “talebano”. Dall’altro Mark Wilson, decisamente più giovane, ex giornalista, laureato in politica internazionale, il CEO sorridente, ma senza un background scientifico né una lunga esperienza manageriale, incaricato di traghettare l’organizzazione attraverso un mondo che cambia. Ma il fatto che il direttivo si sia nettamente diviso a metà, insieme alle dichiarazioni diplomatiche, apparentemente imbarazzate, di altre parti in causa, e la presa di posizione a suo favore di altre istituzioni e di altri protagonisti, qui e qui, per esempio, dimostra che non si tratta solo di una questione personale. La crisi esiste, ed è profonda. Ci sono due anime, oggi, nella Cochrane, come in una Chiesa che si prepara a uno scisma.

È passata molta acqua sotto i ponti da quando la Cochrane Collaboration, come si chiamava all’inizio, vide la luce in un anonimo edificio a un solo piano a Summertown, un sobborgo di Oxford. Negli anni, a mano a mano che si estendeva nel mondo e coinvolgeva un numero crescente di persone, andava, forse inevitabilmente, perdendo quello spirito di collaborazione che era presente nella sua denominazione originaria e che il nuovo corso, forse non a caso, contro il parere della vecchia guardia, ha voluto togliere dal nome, semplificandolo in “Cochrane”.

Nel logo dell’iniziativa restano però entrambe le “C”, una per “Cochrane” e una per “Collaboration”, affrontate tra loro, a formare un cerchio blu incompleto che circonda un “forest plot” viola, rappresentazione grafica di come si possa trarre una conclusione significativa da studi diversi.

cochrane logoA tutti faceva piacere che il marchio, per chi si occupa di medicina, fosse una sorta di bollino di qualità, ma la “brandizzazione”, come si usa dire oggi, di questa esperienza, un’espressione che sottolinea il passaggio a una logica aziendale, non poteva invece che far storcere il naso ai pionieri dell’iniziativa, basata sull’entusiasmo e il lavoro volontario di centinaia di ricercatori, nata come una sfida rivoluzionaria all’approccio tradizionale che vedeva la medicina più come un’arte che come una scienza.

Con il passare degli anni, inoltre, i criteri di indipendenza e di mancanza di conflitto di interessi dei revisori rispetto ai temi trattati si facevano più elastici. L’idea di creare conoscenza a disposizione di tutti, secondo la logica dell’open access, veniva limitata dal momento in cui la Cochrane Library, con l’archivio di tutte le revisioni condotte nel tempo, veniva ospitata su una piattaforma online, appena rinnovata, di Wiley, un colosso dell’editoria e della formazione a livello mondiale, con molte revisioni disponibili solo a pagamento.

“Follow the money”, “segui il denaro”, si dice, quando c’è da orientarsi in questioni intricate. E il fattore economico, che potrebbe aver catalizzato la crisi, potrebbe anche indirizzarne la risoluzione. Come ha fatto notare Luca De Fiore, presidente del Network Italiano Cochrane, nel suo blog, Goetzsche, “se allontanato, potrebbe preferire di non affidare alla Cochrane Library le sintesi delle sue ricerche: chi ha da perdere di un’eventuale scelta del genere è la Cochrane, perché le revisioni di Goetzsche e dei ricercatori a lui più vicini sono tra le più consultate e citate della Library. Questa è di gran lunga la principale fonte di ricavi della Cochrane (6 milioni e 500 mila su 8 milioni e seicento mila pound complessivi): se vogliamo, l’eventuale espulsione di Goetzsche potrebbe danneggiare l’impact factor della Library e, a medio termine, i ricavi dei servizi editoriali della Cochrane. È probabile che i manager della Cochrane tengano in conto questo aspetto, a meno che non ritengano che Goetzsche arrechi danni ancora maggiori in termini di reputazione della Cochrane o di ricezione di finanziamenti liberali”.

 

Che cos’è Cochrane?

Perché mai però quella che sembra una guerra di poltrone, o di idee, interne a una singola organizzazione, dovrebbe riguardare tutti? Prima di tutto perché la Cochrane non è un’organizzazione qualunque, ma una realtà unica nel suo genere, particolarmente preziosa in un’epoca in cui tutto il sistema della ricerca presenta moltissime criticità: dalla necessità per gli scienziati di pubblicare troppo, sempre e comunque, alla difficoltà di riprodurre molti dei dati pubblicati, dalla carenza di finanziamenti indipendenti al fiorire delle cosiddette “riviste predatorie”, dove pagando si può pubblicare qualunque cosa, alla crescente consapevolezza che ciò che arriva sulle riviste scientifiche, a disposizione di tutti, è solo la punta dell’iceberg dei dati raccolti nel laboratori di tutto il mondo: un’immensa mole di risultati, soprattutto se negativi, o sfavorevoli a farmaci e vaccini, rischiano di non vedere mai la luce. Da qui una delle richieste più pressanti dei ricercatori vicini a Goetzsche: accedere ai dati originali, nonostante la loro mole, per poter arrivare a conclusioni ancora più affidabili.

Nel dibattito sulle fake news, qualcuno, con scarse probabilità di successo, propone di contrassegnare con bollini di qualità le notizie vere che circolano sui social media per distinguerle dalle bufale. Nel mondo della medicina, il logo tondeggiante viola e blu della Cochrane ha finora svolto questa funzione, garantendo la serietà del lavoro che ha portato ai risultati riferiti. Tra le migliaia di risultati che possono uscire da una ricerca su PubMed, la biblioteca della letteratura medica, non tutte le pubblicazioni hanno infatti lo stesso valore, e non solo per il prestigio della rivista che le ospita, ma anche, intrinsecamente, per il metodo che le ha prodotte: esiste una cosiddetta “piramide delle evidenze”, o meglio, della “forza delle prove”, e ai suoi vertici ci sono metanalisi e revisioni sistematiche come quelle condotte dai ricercatori Cochrane.

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Non basta infatti leggere la letteratura scientifica internazionale per raccapezzarsi sui mille temi della salute. Ogni giorno escono migliaia di studi e, anche selezionando solo le riviste più importanti e affidabili, nessun medico riesce a leggere per intero tutti questi lavori. Ancor meno, un semplice laureato in medicina, che non abbia approfondito (ma tanto!) la statistica e la metodologia degli studi clinici, è in grado di riconoscere sistematicamente tutti i possibili limiti che un lavoro, anche condotto in piena fede, può portare con sé.

Per questo è nata, agli inizi degli anni Novanta, la Cochrane Collaboration: unire, in uno spirito appunto di collaborazione, esperti capaci di raccogliere, selezionare e analizzare i dati emersi dai diversi studi pubblicati su un determinato argomento, per rispondere poi a un quesito clinico con una review riassuntiva, di cui si fornisce anche una sintesi breve in un linguaggio comprensibile a tutti. Un grande sforzo di verifica e trasferimento della conoscenza in medicina, basato sui principi di un epidemiologo scozzese, Archie Cochrane, da cui l’iniziativa prende il nome, il quale per primo propose l’idea di una medicina basata su prove di efficacia ed efficienza, la cosiddetta “evidence-based medicine”, in sigla EBM.

 

Conoscenza, informazione e fiducia

Ma è ancora possibile affermare che “Cochrane vuol dire fiducia”, parafrasando un famoso slogan pubblicitario degli anni Sessanta, se gruppi di ricerca differenti, usando gli stessi criteri, accuratamente descritti in un voluminoso manuale, giungono a conclusioni divergenti, come è accaduto sul caso del vaccino contro HPV?

Molti commentatori, in questi giorni, hanno sottolineato la necessità di fare i conti con questa realtà, che cioè nessun fatto può essere analizzato e riferito in maniera completamente astratta dal “fattore umano”. Secondo i metodologi “duri e puri” come Goeztsche, non serve capire di mammografie, vaccini o psichiatria per analizzare gli studi al riguardo: a contare sono solo i dati, e come sono esaminati. Altri arrivano all’estremo opposto, negando in toto il valore della “medicina basata sulle prove”, richiamandosi a esempi estremi, come il “paradosso del paracadute”: non occorrono studi controllati per dimostrare che buttarsi da un aereo con il paracadute sia più sicuro che senza. Il buon senso e l’esperienza del clinico basta, non richiede studi controllati. Come spesso accade, la verità è probabilmente nel mezzo. Come hanno ricordato gli esperti italiani nel loro documento su Scienza In Rete, la medicina basata sulle prove fornisce informazioni indispensabili, che però vanno integrate con altri elementi, di fattibilità e sostenibilità economica, di preferenze dei malati e così via, per arrivare alle raccomandazioni cliniche da consegnare a medici e pazienti.

In un’epoca di fake news, il “caso Cochrane”, come è stato ribattezzato, mette però anche più in generale in dubbio la possibilità di avere fonti veramente affidabili, come giustamente ha fatto notare sulle pagine del BMJ Ray Moynihan, famosissimo ricercatore, scrittore e giornalista australiano.

Il dibattito di questi giorni riguarda la possibilità di stabilire dei punti fermi, che si avvicinino il più possibile alla “verità”, grazie al riferimento comune ai fatti, ai dati, a un metodo scientifico condiviso; la necessità di raccogliere e integrare i pezzi di conoscenza ottenuti dai diversi gruppi di ricercatori che in tutto il mondo pubblicano migliaia di paper ogni giorno; l’opportunità di delegare a persone capaci queste analisi, spesso molto complicate, riconoscendo il primato della competenza; la fiducia che di conseguenza possiamo porre nel loro giudizio, per ottenere le informazioni che ci servono per compiere scelte consapevoli, almeno nel campo della salute; l’opportunità che gli stessi ricercatori siano liberi di discutere dei loro risultati, anche rimettendo in dubbio in ogni momento le loro conclusioni, usando gli stessi criteri assodati.

Una libertà che proprio il clima di disinformazione da un lato, e di caccia alle fake news dall’altro, rischia di mettere in pericolo, come accennava qualche settimana fa Melinda Wenner Moyer sul New York Times e riprendevo recentemente sul Tascabile anch’io. Una crisi che potrebbe dare un’ulteriore spallata alla fiducia nella scienza, come discuteva anche Massimo Sandal su Wired.

Si torna quindi, ancora una volta, a discutere di fiducia, un elemento chiave del rapporto tra scienza e società. È evidente che questa è indispensabile, ma è altrettanto chiaro che non si può più dare per scontata, ma va faticosamente conquistata, giorno per giorno, con la trasparenza, con il rigore, con la responsabilità. Come i membri della Cochrane, ai diversi livelli, riusciranno a fronteggiare questa tempesta, potenziando la loro iniziativa o, viceversa, affossandola, cambierà, e di molto, il futuro della medicina, e di conseguenza, della nostra salute.