Martedì scorso il Sole 24 ore ha scritto che il governo si starebbe apprestando a varare, insieme alle norme sulla fatturazione elettronica, anche una stretta fiscale sul contante, mediante l'applicazione di una imposta di bollo sui versamenti cash in banca di importo superiore ai 200 euro. Il MEF dopo mezza giornata ha smentito questa intenzione, dichiarando che il "governo non prevede nessuna tassa sull'uso dei contanti". Il che, a voler fare i pignoli, potrebbe essere vero, senza che la notizia smentita risulti falsa, visto che quella di bollo è un'imposta, non una tassa relativa a una specifica prestazione pubblica. La sostanza, comunque, non cambierebbe.

Soldi bruciati

D'altra parte, non sarebbe certo la prima volta che un governo prova a combattere l'evasione fiscale disincentivando l'uso del contante. In poco più di tre anni e mezzo, dall'aprile 2008 al dicembre 2011, il tetto massimo per l'utilizzo del cash è stato portato da 12.500 a soli 1.000 euro. Dal 2014 è stato stabilito il divieto di pagare in contanti l'affitto della casa di abitazione e delle relative pertinenze, nonché l'obbligo per tutti i professionisti di dotarsi di un POS.

Tuttavia, le misure adottate non hanno dato i risultati sperati. Il che era ampiamente prevedibile: ci vuole un grande esercizio di fantasia per sperare di far rispettare una legge promulgandone altre. Anzi: con ogni probabilità chi "faceva nero" ha continuato a farlo, mentre chi pagava l'affitto regolarmente in contanti potrebbe avere iniziato a pagarlo in nero, riducendo ancora di più l'imponibile e il gettito per lo Stato.

I Governi cambiano, eppure i fallimenti dei precedenti esecutivi non sembrano cambiare di una virgola le strategie di quello in carica, soprattutto in materia di lotta all'evasione fiscale.
L'idea di tassare il contante nasce concettualmente dal più classico dei processi alle intenzioni: poiché il contante potrebbe essere insieme causa ed effetto di evasione, esso va limitato e tassato. Ma una limitazione all'uso del contante diviene di per sé un ulteriore incentivo all'evasione. Così lo Stato non spezza, ma rafforza la "catena del nero". Per un semplice motivo: quello del nero è un circuito parallelo.

Tendenzialmente, chi incassa in nero non deposita i suoi soldi in banca. Un'imposta di bollo sui versamenti in contanti, pertanto, sarebbe pagata solo da chi - come i tabaccai, i giornalai, i panettieri o i baristi e i piccoli commercianti e artigiani in genere - incassa fisiologicamente quasi solo contanti. Anzi, l'imposta di bollo sul versamento di contanti potrebbe teoricamente finire per indurre queste ultime categorie a evadere a loro volta sopra una certa soglia, proprio per eludere l'imposta. Di sicuro a presentarsi in banca con la valigetta colma di banconote non sono gli "imprenditori fantasma", che hanno a disposizione forme molto più sofisticate di riciclaggio.

La misura desta perplessità anche per l'ignoranza di chi l'ha ideata: è evidente che il fatto di incassare in contanti, invece che con strumenti elettronici, non può far presumere una maggiore capacità contributiva. Le imposte, in teoria, dovrebbero riferirsi al reddito, non alla natura dell'attività o ai mezzi di pagamento utilizzati. Peraltro, a pagare questa imposta sarebbe come sempre il consumatore finale. Col risultato che, in nome della lotta alla presunta evasione del panettiere, aumenterebbe per tutti il prezzo del pane.

Le conseguenze, insomma, rischiano di essere tragicomiche: poiché il versamento di contanti sarebbe scoraggiato dall'esistenza dell'imposta, rischierebbe di venire a crearsi un vero e proprio mercato parallelo del contante, che finirebbe per ibridare, più di quanto già non avvenga, due ambiti che, al contrario, sarebbe il caso di tenere separati: l'economia sommersa e quella illegale.

Di fondo bisognerebbe ammettere che la guerra al contante poggia su un presupposto - meno limiti all'uso del contante uguale più evasione - che non è solo erroneo, ma palesemente falso. In tutti i Paesi in cui sono più diffusi gli strumenti di pagamento elettronico e l'evasione è più contenuta, i limiti all'uso del contante sono o inesistenti o molto meno polizieschi. Il caso più eclatante è indubbiamente quello tedesco: in Germania, semplicemente, non esistono limiti all'utilizzo di contanti. Eppure, l'economia sommersa ammonterebbe a poco più del 13%, contro l'impressionante 31% nel nostro Paese. Numeri del tutto simili si registrano anche in altri Paesi, come Svezia, Giappone o Austria, dove non vige alcun limite. Tetti esistono, invece, in Spagna (2500 Euro) e Francia (3000 Euro): ma quello italiano è in assoluto il limite più basso d'Europa.

Non sappiamo ancora se la tassa (pardon, imposta) sul contante rientri davvero nei piani del Governo o ne sia uscita appena visto l'effetto (molto negativo) dalla notizia. Poiché però la guerra al contante, pur con diverse declinazioni, continua a essere il cavallo di battaglia delle politiche anti-evasione, sarebbe il caso di interrompere quanto prima questo circolo vizioso. Peraltro, con una misura di questo tipo a perderci sarebbero sia esercenti che consumatori e a guadagnarci i soli istituti bancari, che potrebbero vedere crescere i propri profitti sulle operazioni di accredito elettronico, riducendo allo stesso tempo i costi di gestione del contante.

Se l'obiettivo è quello di incentivare l'utilizzo di sistemi di pagamento tracciabili, il Governo potrebbe casomai ipotizzare un sistema di incentivi all'utilizzo di tali sistemi - che oggi sono irragionevolmente costosi - non certo imporre nuove tasse su quelli da disincentivare.

Più in generale, invece di vessare ulteriormente un popolo già stremato dalle tasse, aggredendo comportamenti individuali, piccole transazioni e consumi quotidiani, badando cioè solo ai sintomi della malattia, il Governo dovrebbe trovare il coraggio per occuparsi delle cause. Prima fra tutti l'odiosa disparità che tuttora regna nel rapporto con i suoi consociati da parte di uno Stato che richiede la massima trasparenza a tutti, tranne che a se stesso.