Gli accordi di Minsk e la guerra ibrida di Putin
Istituzioni ed economia
L'attenzione mondiale era concentrata mercoledì scorso, 11 febbraio, sulla città di Minsk, la capitale bielorussa, per capire se la guerra nel Donbas avrebbe avuto termine o sarebbe invece continuata con conseguenze davvero imprevedibili.
Prima di analizzare il documento che è stato sottoscritto e che il governo russo ha pubblicato sul suo sito ufficiale intorno alle 13 del 12 febbraio, va intanto segnalato il ruolo di "onesto sensale" che inopinatamente ha assunto il presidente bielorusso Lukashenka, fino a ieri un "paria" per le cancellerie europee, considerato addirittura persona non grata da alcuni governi. In una foto diffusa nei giorni scorsi egli invece appariva sorridente, attorniato dai potenti d'Europa, cortese verso la signora Merkel, alla quale ha offerto un mazzo di fiori e, addirittura, colto mentre sottraeva a Putin lo scranno imperiale su cui il presidente russo voleva per errore sedersi.
Quanto all'accordo che parrebbe essere stato raggiunto, occorre capire prima di tutto che tipo di guerra sia quella del Donbas. Detto in breve, la Russia di Putin ha recentemente inventato un nuovo tipo di guerra moderna, la "guerra ibrida". Lo ha dovuto fare anche per motivi oggettivi, poiché uno dei capisaldi delle relazioni internazionali degli ultimi settant'anni (ribadito dal Trattato di Helsinki) è l'intangibilità delle frontiere.
La politica energetica russa e la ricostituzione della potenza e del prestigio dello Stato russo portano invece a una sovversione dell'ordine nello spazio post-sovietico: è già avvenuto in Moldova con la Transnistria e in Georgia con l'Abkhazia e l'Ossezia del sud; sta accedendo in Ucraina, con la Crimea e il Donbas, potrebbe avvenire tra poco nei Paesi baltici. Questa guerra "ibrida" è tale per i mezzi usati (uso di soldati russi senza mostrine ovvero i cosiddetti "omini verdi", presenza di truppe irregolari di "separatisti", distribuzione di passaporti russi tra la popolazione civile, ecc. ecc.) e soprattutto nei tempi: per far digerire alla comunità internazionale una modificazione territoriale sostanziosa oppure la fine di un'entità statale, occorre diluire molto nel tempo questi effetti, in modo tale che l'opinione pubblica mondiale sia posta di fronte al fatto compiuto o che neanche se ne avveda, presa com'è dai ritmi convulsi del villaggio globale.
In questo quadro, gli accordi intermedi, da smentire poi nei fatti, le tregue, gli "stop and go", sono un elemento di normalità. Non esistono quindi accordi davvero duraturi nel quadro della guerra "ibrida", peraltro ingaggiata da una superpotenza nucleare, che può quindi facilmente smentire se stessa o gli accordi presi da "separatisti" amici. D'altra parte, fu proprio nel corso di un lungo conflitto di questo genere che la Russia strappò l'Ucraina alla Polonia nel Sei-Settecento, per poi impadronirsi della stessa Polonia e del Baltico.
Firmati da ucraini, russi, dal rappresentante dell'Osce e, pare, anche dai separatisti, gli accordi di Minsk del 12 febbraio (che, non a caso, sono in realtà i Minsk II, perché un primo accordo era già stato raggiunto mesi fa, ma esso è stato cancellato dagli eventi) prevedono alcune importanti clausole che minacciano di costituire un'occasione per la ripresa - tra qualche mese o nell'espace d'un matin - del conflitto. L'Ucraina non esce formalmente sconfitta dagli accordi e, anzi, le sue prerogative di Stato sovrano sembrerebbero confermate; soprattutto, c'è la promessa che il governo ucraino riprenderà il controllo del confine il giorno dopo le elezioni regionali da tenersi presto nel Donbas. Ma essa ha dovuto accettare l'amnistia per gli insorti, la creazione di milizie locali, una futura cooperazione transfrontaliera tra Donbas e Russia, l'autonomia linguistica (il che vuol dire monopolio del russo) del Donbas; soprattutto, ha dovuto promettere una riforma costituzionale federalista e uno statuto speciale per il Donbas. Alcune di queste cose sarebbero teoricamente giuste, ma saranno sicuramente usate sia per togliere sovranità decisionale al governo centrale ucraino, sia come casus belli per una ripresa delle ostilità, sia come precedente da imporre ad altre importanti regioni frontaliere, come quella di Charkiv.
D'altra parte, l'opzione annessionista non era in cima alle priorità di Mosca, che teme la proverbiale ingovernabilità del Donbas (che rappresenta una sorta di Corsica est-slava) e il carico finanziario che comporterebbe amministrarlo direttamente, visto che è sede di un'industria pesante e mineraria che sopravvive solo grazie alle sovvenzioni statali. Infatti, gli accordi prevedono sia il ripristino del pagamento di stipendi e pensioni, sia il ritorno dei finanziamenti centrali ucraini all'economia del Donbas. Sembra che per ora (a meno che non maturi a Mosca una linea più dura) un'invasione e un'annessione russa del Donbas sarebbero compatibili solo con l'annessione dell'intera (fantomatica) Novorossija, che va, nei piani del Cremlino, da Odessa fino a Charkiv. E se Mosca non sarà in grado di annettersela per intero, farà di tutto perché un'entità di questo genere nasca all'interno di un menomato Stato ucraino.
S'illudeva, infine, chi pensava ad un coinvolgimento americano nel conflitto: Obama e i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale non hanno alcuna voglia di dare armi agli ucraini e aprire un fronte lungo il confine della superpotenza nucleare russa (non ci sono precedenti storici e potrebbe rivelarsi un boomeramg nella sfera d'influenza degli Usa); è evidente che, nonostante una parte del governo Usa e i repubblicani siano molto più interventisti, Obama consideri più importante il fronte Isis e tema gli effetti strategici di un impegno su più teatri. La partita è ancora lunga, insomma. E l'iniziativa resta nelle mani del Cremlino.