Bucha 1 grande

Quando Orwell scrisse 1984 probabilmente non immaginava che la neolingua potesse esistere al di fuori di uno Stato totalitario: era difficile, e non solo per lui, immaginare che la libertà di espressione, garantita dalle società liberaldemocratiche, potesse diventare uno dei pericoli per la loro sopravvivenza. Eppure, se oggi ci troviamo a diffidare anche di chi usa la parola “pace” (forse la più bella, pura e umana espressione della nostra lingua) è perché da molti anni abbiamo abbassato la guardia sul linguaggio, con slittamenti semantici che pian piano hanno impedito di usare con sicurezza nel discorso pubblico alcune parole e alcuni concetti, usurpati da chi aveva fini propri.

Per questo è così importante oggi tornare a inchiodare chi scrive e chi parla al significato di ciò che dice, e farlo senza sconti anche verso chi è chiamato a rappresentare i nostri valori e le nostre battaglie. Il mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Putin è uno di quei casi in cui, proprio per il fatto che siamo d’accordo sul principio e sulla decisione, vale la pena uscire dal coro degli entusiasti e cercare di guardare la questione con maggiore lucidità e precisione.

La Corte Penale Internazionale, fondata alla fine dello scorso secolo sulla base dei principi giuridici internazionali che hanno dato vita e sostenuto le istituzioni multilaterali, ha un nome che è insieme preciso e fuorviante: è infatti frutto di trattati “internazionali”, ma ha giurisdizione “sovranazionale”. Riguarda i crimini commessi sul territorio di uno Stato che ne fa parte, o da cittadini di uno Stato che ne è parte: e dato che l’Ucraina ha ufficialmente accettato la giurisdizione della Corte, è pacifico che chi commette crimini da questa perseguibili sia giudicabile secondo quanto previsto dal Trattato.

Qual è però oggi il limite più rilevante di questa istituzione? Sono due, a ben vedere.

Il primo consiste nel fatto che proprio gli USA, artefici dell’ordine mondiale multilaterale a cui è ispirata la CPI, insistono nel considerarla una possibile minaccia alla sicurezza e agli interessi nazionali di Washington; e insieme agli USA l’unica altra democrazia compiuta e pienamente occidentale a rifiutarne l’applicazione è Israele. Le ragioni per cui USA e Israele si rifiutano di aderire sono sostanzialmente le stesse addotte da diverse autocrazie, che avrebbero ben maggiori ragioni di temere la Corte: un uso politico delle inchieste e delle accuse (per gli USA riguardanti le molte missioni militari all’estero, per Israele riguardanti le zone occupate dal 1967 nei territori internazionalmente riconosciuti come palestinesi), e procedure processuali che forse non reggerebbero in una democrazia liberale.

Se queste motivazioni fossero pretestuose, se cioè la Corte fosse davvero giuridicamente indipendente da pressioni politiche e funzionasse con il principio del giusto processo, per chi ha a cuore il rispetto del diritto internazionale sarebbe necessario aderire e sostenerne il più possibile l’azione. Con il paradosso che invece hanno aderito moltissimi Stati non democratici dell’Africa Sub-sahariana, e persino l’Afghanistan, il Tagikistan, la Cambogia, la Mongolia e il Bangladesh, ma non l’India o l’Indonesia, l’Etiopia o la Malesia. Persino l’Iran, l’Eritrea, la Siria e lo Yemen hanno firmato, pur non avendo ratificato. Così stanno le cose: e allora forse c’è qualche motivo per considerare con attenzione se la Corte sia oggi un tribunale degno di fiducia nelle sue scelte e nel suo operato, o se invece vada resa più credibile, proprio nell’interesse di un serio processo ai crimini commessi da Putin.

Il secondo limite è che nel concetto di diritto penale è in un certo senso iscritto quello di “certezza della pena”: nessuno di noi si considererebbe soddisfatto se, come vittima di un crimine, vedesse l'accusato libero di continuare a svolgere la propria vita, alla luce del sole e in gran parte senza alcun cambiamento, perché di fatto irraggiungibile e inattingibile dalle sentenze del tribunale; non perché irreperibile, e a volte nemmeno perché troppo potente, ma solo perché il tribunale non dispone di una forza esecutiva in grado di eseguire quanto deciso. E Putin, in quanto capo di Stato di uno Stato sovrano, potrà essere processato e condannato solo una volta che avrà perso il potere e la protezione di cui gode: ma, ammesso che un giorno questo accada (sperando che accada presto, e che ne segua una vera rinascita democratica in Russia), a quel punto sarebbe forse processabile senza grandi problemi giuridici anche dal primo tribunale ucraino di provincia che volesse indagarlo.

Se si concorda su questo punto, che cioè il valore del mandato di cattura non stia nella possibilità che Putin venga arrestato da un gendarme durante un viaggio all’estero in uno Stato aderente (eventualità remota: e paradossalmente in teoria sarebbe ancora possibile per lui recarsi alle Nazioni Unite a New York, mentre dovrebbe stare alla larga da diversi Stati africani in cui stazionano i mercenari della Wagner), allora bisogna riconoscere che il vero significato della vicenda è politico. Si tratta cioè di un ulteriore segnale di isolamento e condanna inviato al regime russo: o perché faccia pressione a Putin per sedersi senza precondizioni territoriali al tavolo delle trattative (ma con l’obiettivo di salvarsi dall’incriminazione) o perché il presidente venga deposto da chi è legato a lui a doppio filo.

Giusto o sbagliato che sia questo calcolo, efficace o meno che sia il mandato di cattura, la questione è che oggi la Corte Penale Internazionale dovrebbe cambiare nome perché, se tiene il ragionamento fatto fin qui, adotta criteri e metodi che sono para-legali ma soprattutto politici. Se si vuole sul serio che svolga il ruolo di giudice internazionale per cui è nata bisogna cambiarne questi aspetti, che invece di essere elementi a nostro vantaggio sono alibi per i criminali da processare: è una pericolosa illusione sperare che le autocrazie possano convertirsi o perdere autorità al proprio interno se le democrazie liberali non sono in grado di mettere in discussione i limiti delle istituzioni multilaterali, se non passano attraverso la costruzione di un vero potere di giustizia sovranazionale (valido almeno tra loro).

Questo non vuol dire che la CPI non può emettere un mandato contro Putin, né che giudicherebbe con obiettivi di parte: ma che sarebbe più semplice arrivare a una condanna riconosciuta anche tra i nostri avversari se il suo operato e la sua legittimità non venissero valutati a fasi alterne da parte nostra.

La desiderabilità delle liberaldemocrazie occidentali (con tutti i loro limiti) è stata ciò che ci ha permesso di vincere la guerra fredda. Se vogliamo eviteremo il rischio di un conflitto aperto con le autocrazie, dobbiamo rendere di nuovo credibile la nostra volontà di un mondo migliore, e migliore per tutti: allora, forse, vinceremo di nuovo senza sparare un colpo. Per farlo bisogna partire da quello che diciamo: senza sconti, senza auto assoluzioni e senza illusioni. L'alternativa è ammettere che non vogliamo prendere sul serio i principi fondanti della liberaldemocrazia; e che, se pensiamo che ci faccia comodo contro i nostri avversari, siamo disposti anche a chiamare "giustizia" cioè che invece è soprattutto "politica". "Guai ai vinti" o "la legge è uguale per tutti"?