L'ordine internazionale è sempre in pericolo, serve una liberaldemocrazia federale
Istituzioni ed economia
"Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso" (autore ignoto)
Il referendum sull'invio delle armi italiane potrebbe mettere a rischio la compattezza occidentale nel sostegno all'Ucraina contro Putin? Difficile, ma facciamo finta che sia davvero così. Come si evita che la salvezza della democrazia in Europa dipenda da una cosa tanto piccola e tanto inutile? Dovrebbe essere abbastanza semplice individuare una possibile soluzione; e invece sono mesi che le persone più intelligenti e preparate si danno da fare tentando di spiegare che cosa c'è in ballo, rispondendo colpo su colpo alle sciocchezze che circolano: sembra che credano di poter convertire una parte dell’opinione pubblica (che comunque ha dimostrato di non voler ascoltare, né capire) alla ragionevolezza, attraverso informazioni non inquinate. Parliamoci chiaro, si tratti delle sponde del Mar Nero o di quelle del Mar Cinese, dell'Africa divorata da appetiti neocoloniali o del cosiddetto Sud globale: se la posta in gioco non è chiara da un pezzo, non c’è argomento razionale né emotivo sufficiente a dimostrarlo.
L’ostacolo principale è infatti l’insopprimibile volontà politica dei nostri avversari di sfruttare le divisioni delle nostre società, attraverso tutti gli strumenti (leciti o no) che hanno a disposizione. L’inquinamento del dibattito pubblico è solo uno dei tanti mezzi che usano, e pensare di battere gli autocrati su questo terreno dando la caccia alle fake news è una pericolosa illusione: l’asimmetria non solo è già oggi a sfavore di chi tenta il debunking, ma con i sistemi di generazione dei testi e immagini (come ChatGPT e Midjourney) può diventare una sconfitta definitiva in cui bruciare le nostre preziose energie. Questa battaglia tra l'altro viene condotta una post-verità dopo l’altra, in modo del tutto decentralizzato, con esiti molto diversi tra le diverse lingue e i pubblici: difficilmente un francese che guarda la tv generalista noterà il debunking svolto da una testata online italiana, e un tedesco che legge la Frankfurter Allgemeine Zeitung probabilmente non segue quello che si dice alla radio spagnola, o sulla stampa finlandese. Mentre la disinformazione aumenta, noi proviamo a svuotare il mare con uno scolapasta.
La soluzione a questo problema, come per tutti quelli che vanno oltre i confini di un singolo Stato, non può stare nella formula dell’alleanza fra liberaldemocrazie nazionali e sovrane: quello che viene definito “ordine internazionale liberale” è infatti sempre alle prese con il problema dei free-riders, che in ultima analisi è il problema di conciliare la necessità di rimanere uniti e quella di perseguire gli interessi nazionali (quasi sempre confliggenti). A questo equilibrio precario si sono aggiunte negli ultimi anni la progressiva perdita di leadership statunitense (parzialmente e temporaneamente compensata dalla presidenza Biden), il crescente disinteresse dell’elettorato per proposte politiche riformiste (a favore di populismi, sovranismi ed estremismi di vario genere), e infine la perdita di senso del dibattito politico e intellettuale, più concentrato sulle polemiche di giornata (spesso agevolate dai social media) che sul quadro generale e sul futuro a breve, medio e lungo termine.
Il composito puzzle chiamato “Occidente liberale” è sottoposto a sollecitazioni continue, non solo elettorali, dalle sue opinioni pubbliche: per quanto perfettamente combacino tra loro i pezzi, finirà presto o tardi per separarsi in frammenti più o meno grandi, lungo le linee di faglia originarie. L’unico rimedio possibile è “incorniciare” il puzzle, rendendo man mano permanente il risultato dello sforzo fatto per metterlo insieme.
Putin, Xi Jinping e gli altri autocrati (incluso Erdogan, che lo mostrò pubblicamente con il famoso “Sofagate”) scommettono sulle inevitabili tensioni che si generano nel lungo periodo tra chi si contrappone ai loro disegni; è anche per questo che in genere privilegiano rapporti bilaterali con i singoli governi, alternando bastoni e carote e rifiutando il confronto con i rappresentanti delle istituzioni europee. Non devono rendere conto a una classe politica che dipende da loro, possono usare spregiudicatamente i mezzi di comunicazione senza faticare troppo per mantenere il consenso (che spesso è obbligato da regole elettorali che escludono o limitano l'opposizione), investono somme faraoniche in sviluppi militari che noi stessi abbiamo finanziato (commerciando con loro, prestando soldi o dando interessi perché ce li prestassero) facendo accordi per le "nostre" aziende nazionali e per i "nostri" investitori. Le visite a Xi Jinping (e in qualche caso le telefonate a Putin) fatte in ordine sparso dai vari Macron, Scholz, Biden e altri, sono un potente incentivo da parte occidentale a questa strategia. Per ottenere qualche risultato, agli autocrati basta tenere duro abbastanza a lungo, perché il fattore tempo è generalmente a loro favore: forse non riusciranno nei loro piani di distruggere l’ordine attuale, ma la longevità di tanti regimi (anche i più impresentabili e precari) testimonia che non abbiamo ancora trovato strumenti efficaci per metterli in seria difficoltà (a meno di voler considerare le mosse di Prigozhin una manovra occidentale: roba per complottisti hardcore).
Se le forze di governo europee avessero davvero a cuore la democrazia liberale, dovrebbero sottrarre prima possibile la propria politica estera e di difesa a questo gioco al massacro: la deterrenza militare andrebbe messa davvero in comune sotto un unico comando militare, che risponda politicamente a un governo democratico, eletto dai popoli che liberamente sceglieranno di entrare a far parte di questa federazione; una federazione di cui contribuirebbero a plasmare le scelte attraverso i loro rappresentanti in un vero Parlamento sovranazionale e attraverso un Senato che rappresenti gli Stati membri, senza poteri di veto.
In questo modo, e forse solo in questo modo, si sottrarrebbero certe questioni sensibili dal mercato del voto nazionale. Oggi non ha senso promettere dazi e barriere tariffarie in campagna elettorale negli Stati membri, perché su quelle materie decide l'UE; e così domani sarebbe un assurdo chiedere agli elettori italiani (o tedeschi, bulgari, greci, ...) di prendere posizione su quello che dovrebbe fare la federazione rispetto alle questioni della guerra e della pace: sarebbe una mossa priva di qualsiasi effetto pratico, fino a che non cambiasse l'orientamento della maggioranza degli elettori europei. Non è detto che questo metta al sicuro il sostegno all'Ucraina, o a Taiwan: ma renderebbe molto più difficile per i nemici della democrazia fare leva sugli interessi di ciascuno Stato per separare l'alleanza un pezzo alla volta. E avrebbe il vantaggio di sottrarre la scelta sulle forniture, sulle risposte diplomatiche e sulla politica estera ai tentennamenti e alle tentazioni di far da sé, che non sono solo italiane.
Da un punto di vista concreto e pratico, la NATO e l'Unione europea potrebbero forse assorbire naturalmente questa federazione come erede degli Stati membri che ne facevano già parte, così come hanno assorbito la Germania dell'Est al momento della riunificazione tedesca. Idealmente, un giorno dovremmo arrivare a una coincidenza quasi perfetta tra la federazione e le altre due istituzioni, creando "gli Stati Uniti d'America e d'Europa" da Marco Pannella quasi venti anni fa. Non abbiamo imboccato questa strada nel dopoguerra o dopo il crollo del Muro di Berlino, e non siamo ancora riusciti a costruirli: ma questa non è una scusante, semmai è un incentivo a piantare ora quell'albero della cui ombra abbiamo bisogno; per quanto difficile sia farlo nascere e crescere, non è il caso di trovarci tra altri venti anni a rimpiangere di non averci nemmeno provato.