trump de santis grande

A scrutini ancora in corso in alcuni Stati, il risultato delle elezioni statunitensi di metà mandato sembra ormai delineare un quadro di coabitazione tra presidenza democratica e Congresso suddiviso tra Senato, rimasto sotto il controllo dei democratici e Camera ormai aggiudicata al Gop.

In uno scenario così suggestivo di un'America sempre più polarizzata, risuona ancora più fragoroso il tonfo di Trump, riuscito nell'ardua impresa di perdere una tornata elettorale che, a conti fatti, nessuno può realmente sostenere di aver vinto.

La prestazione del GOP alle urne, infatti, è contraddistinta, in buona parte degli Stati e dei collegi al voto, da due costanti: la vittoria nelle zone rurali, contrapposta alla sconfitta in quasi tutte le metropoli, e la disfatta in presenza di candidati trumpisti - ultima delle quali, in ordine cronologico, è stata riportata in Arizona, dove Kari Lake, "cocca" dell'ex presidente, ha ceduto il passo alla democratica Katie Hobbs, consegnando lo Stato di Phoenix all'opposizione dopo tredici anni di amministrazione repubblicana.

Nonostante tutto, a ben guardare, queste midterm un vincitore ce l'hanno avuto e, per portata e risonanza a livello nazionale del risultato ottenuto, non potrebbe che trattarsi di Ron DeSantis, rieletto al governo della Florida con un consenso "a valanga", che si attesta intorno al 60% delle preferenze. Una vittoria, quella dell'ex militare, di cui hanno preso nota, in maniera bipartisan, i media di ogni orientamento, gettandosi prematuramente in previsioni che lo vedono già virtualmente intestatario della nomination repubblicana per le presidenziali del 2024.

Di origine italiana, laureato in legge ad Harvard, congedato dalla Marina con una parure di medaglie al valore dopo il servizio in Iraq, DeSantis si presta meglio di chiunque altro nel GOP - per aplomb e curriculum - a incarnare l'antidoto al trumpismo, di cui molti vecchi sostenitori (FOX News e il New York Post su tutti) hanno già prematuramente annunciato la scomparsa, provocando la collera dell'ex presidente.

Tuttavia, quel che sfugge a molti osservatori - troppo spesso inclini ad attribuire un ruolo preponderante allo storytelling rispetto al posizionamento di un candidato sulle policy - è che Ron DeSantis, su molti temi di assoluta rilevanza elettorale, è ben più vicino di quanto si possa credere all'ex inquilino della Casa Bianca, ed è forse proprio questa la ragione che spinge Trump - che ha appena annunciato la propria ricandidatura per il 2024 - a inveire contro un DeSantis percepito come una concreta minaccia alle primarie, al punto di intimarlo a desistere onde evitare ritorsioni e rivelazioni devastanti per la propria carriera.

Definito "Ron il bigotto" dallo stesso Trump - che di certo non è un campione di progressismo - DeSantis, fervente cattolico e sostenuto dal movimento del Tea Party, è stato membro e cofondatore del Freedom Caucus, considerato il gruppo di repubblicani alla Camera più conservatore su temi quali aborto, droghe leggere, porto d'armi, immigrazione e pena di morte.

Chi, come Il New York Post, vede in lui un futuro leader in grado di far voltare pagina al partito dopo le macerie lasciate da Trump, sembra aver dimenticato che il governatore della Florida, a livello politico, è una creatura del tycoon newyorkese - che nel 2020 ne consentì la vittoria alle primarie contro il candidato istituzionale del GOP - e un tipico sottoprodotto del fenomeno trumpista, come sostiene il Guardian e come suggeriscono i trascorsi.
Vale la pena menzionare, infatti, che nel 2017, per ripagare l'allora presidente Trump per l'endorsement alla sua candidatura al Campidoglio, DeSantis, all'epoca membro della Camera e presidente della Sottocommissione parlamentare per la Sicurezza Nazionale, presentò un emendamento alla "Special Counsel Investigation" - l'inchiesta giudiziaria sul Russiagate condotta dal procuratore speciale Robert Mueller - volto a bloccare i fondi all'indagine e a impedire a Mueller di investigare sui rapporti intercorsi tra Trump e i russi prima del giugno 2015, mese in cui il tycoon diede ufficialmente inizio alla campagna elettorale.

Risulta lecito, dunque, mettere in discussione la ricostruzione mediatica che considera il voto per DeSantis alternativo al modello di Trump e necessariamente portatore di una volontà di rinnovamento della leadership repubblicana.

È l'ex presidente, infatti, a prendere ora le distanze da DeSantis più di quanto DeSantis non le prenda da lui. In funzione delle primarie, risulta comprensibile la preoccupazione di Trump per la concorrenza di un candidato aderente a una piattaforma elettorale analoga ma dotato di un'immagine pubblica ben più appetibile.

Più che in una fantomatica distanza dal modello trumpista, dunque, le ragioni dell'enorme successo del governatore della Florida - contrapposto alla disfatta di tanti candidati trumpisti - vanno ricercate in altri fattori: su tutti, la specificità della Florida stessa - repubblicana dal 1998 - e l'inadeguatezza dello sfidante Charlie Crist, anch'egli ex governatore repubblicano, succeduto a Jeb Bush, divenuto indipendente prima e democratico poi.
Come dimostrano i risultati di queste midterm, credere che l'elettorato della Florida sia in qualche misura rappresentativo di quello nazionale significa non aver chiara la complessità di un Paese sempre più frammentato ma che, nonostante tutto, ha indicato di voler normalizzare il dibattito e raffreddare il conflitto politico.

In quest'ottica, Ron DeSantis appare tanto inadeguato quanto Donald Trump allo scopo di rinnovare e restituire ambizioni di maggioranza a un partito che, come ricorda il Wall Street Journal, ha perso tutte le tornate elettorali successive alle presidenziali del 2016 - per giunta, contro il presidente americano con il consenso popolare più basso dai tempi di Henry Truman.

Non è escluso che un candidato diverso da Trump ma intrinsecamente trumpista possa staccare il biglietto per il 2024, ma tutto fa credere che ai democratici basterebbe pensionare Joe Biden, sostituendolo con un candidato più giovane e altrettanto moderato, per rimanere alla Casa Bianca ancora per molti anni; quanto meno, finché i repubblicani non si saranno immunizzati dal virus del trumpismo.