nevada

Succede che i caucus del Nevada sono stati stravinti da Trump con il 46%. In un caucus con affluenza altissima, hanno votato “tutti” per lui: anziani e meno anziani, bianchi e latinos (lui, che dice di voler costruire una muraglia cinese sul confine con il Messico e far pagare il conto ai messicani), istruiti e non istruiti, conservatori e non (anzi: quelli che si sono autodefiniti “liberal” l’hanno votato in misura ancora più massicia di quelli che si definiscono conservatori), “evangelici” e mormoni – lui, pro aborto e tre volte divorziato. Il voto per Trump ha prevalso in tutte le categorie dei elettorato (unica eccezione i giovanissimi). Lo hanno scelto l’86% dei votanti che hanno dichiarato di aver votato per il candidato “che dice le cose come stanno” e il 60% di quelli che hanno dichiarato di aver scelto per il “portatore di cambiamento”.

Succede che i vertici del partito a lungo hanno dato per scontato che la “bolla” di Trump si sarebbe sgonfiata da sola, senza bisogno di intervenire. Succede che gli analisti e i commentatori (anche noi da qui, nel nostro piccolissimo) hanno dato per scontato che anche se la bolla non si fosse sgonfiata da sola Trump sarebbe stato comunque fermato dai vertici del partito (che invece, vedi sopra). Succede che la base, “la gente”, dà per scontato che tutto ciò che sta sul menu è per ciò stesso appetibile, e lo votano senza tanti scrupoli. Sono arrabbiati, stufi e disillusi. Votano “con il dito medio” come ha scritto qualcuno. Hanno patito per otto anni una presidenza debole e remissiva, che si è fatta mettere sotto da gente come Putin. Adesso hanno voglia anche loro di un leader forte e autoritario.

Succede che Ted Cruz e Marco Rubio si sono fermati anche stavolta al pareggio, venti punti più sotto di Trump. Il 21,4% di Cruz suona malissimo. È una sconfitta pura e semplice. Il quasi 24% di Rubio suona un po’ meno peggio perché simbolicamente è un secondo posto (ma nella spartizione dei delegati è un pareggio: 5 a testa) e perché è sopra il dato medio nazionale. Ma quel che più conta è che dopo quel secondo posto in South Carolina che sapeva di rimonta, dopo il ritiro di Jeb Bush e la valanga di endorsement da esponenti della classe dirigente del partito, non si registra da parte di Rubio nessuno scatto, nessuna crescita importante. La somma dei voti di Rubio e di Cruz (che nella realtà nemmeno si sarebbero sommati tutti, se uno dei due ieri non avesse partecipato) non arriva nemmeno a pareggiare pienamente i voti che Trump ha preso da solo.

Ora l’eventualità della candidatura di Trump alla Casa Bianca appare vertiginosamente verosimile. Non sono certo i 30 delegati del Nevada a fare la differenza. È la tendenza che sembra emergere a lasciare tutti spaesati. Pare che i famigerati mega-finanziatori, quelli che quattro anni fa iniettarono fiumi di dollari nelle casse di Mitt Romney, ora si stiano tenendo prudentemente in disparte, timorosi di inimicarsi un personaggio che, adesso si comincia a crederci, fra qualche mese potrebbero dover chiamare “Mr. President”.

La partita si giocherà ora fra le votazioni che si terranno fra una settimana, il celebre “Super Tuesday” che accorpa le primarie di una dozzina di Stati fra i quali il Texas di Cruz, e il voto del 15 marzo nei tre “pezzi forti” Florida, Ohio e Illinois. Nel voto del Super Tuesday si assegnano una valanga di delegati ma con il sistema proporzionale; nei grandi Stati nei quali si vota il 15 marzo vige invece il “winner takes all” che assegnerà tutti e solo al più votato i 99 delegati della Florida (lo Stato di Rubio) e i 66 dell’Ohio (lo Stato di Kasich), i due “swing States” per eccellenza, i 69 dell’Illinois (dove però i repubblicani sanno di non poter vincere nell’elezione generale).

Conterà il dibattito fra i contendenti che si terrà domani a Houston. Conterà il sostegno del partito a Rubio. E soprattutto, conterà quello che sta diventando l’America. Il che non ci lascia troppo tranquilli.