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La stragrande maggioranza degli ucraini ha di noi, noi europei, un’idea della quale non siamo all’altezza. Non da adesso, adesso che siamo alla disperata ricerca di un equilibrio fra una forma di supporto militare che non possa esser strumentalmente equivocato dagli invasori come innesco di un’escalation e una posizione trattativista che non possa fungere da benzina sul fuoco dell’espansionismo del Cremlino, nella stessa misura in cui l’arrendevolezza dei deboli alimenta la ferocia dei prevaricatori.

La rivoluzione arancione ed Euromaidan

Nel Novembre del 2004 Victor Janukovic, cioè il protégé di Putin, truccò le presidenziali – il know how, probabilmente, lo avrà appreso al Cremlino, da quelle parti sono dei professionisti di brogli elettorali – e vinse il ballottaggio contro il rivale filoccidentale e dunque anche e soprattutto europeista “dal di fuori”, Victor Juscenko; i suoi elettori si mobilitarono, centinaia di migliaia, tutti vestiti d’arancione e occuparono Piazza Indipendenza (nomina sunt consequentia rerum) a Kyiv: volevano essere più simili a noi, noi europei, nel metodo e nel merito delle elezioni; l’OSCE certificò l’irregolarità del voto, la Rada sfiduciò il governo, indisse nuove elezioni e Juscenko vinse per distacco.

Dieci anni dopo, la stragrande maggioranza degli ucraini tornò a dimostrare di avere di noi, noi europei, un’idea della quale non eravamo e non siamo all’altezza; la storia si ripeté una seconda volta, se non come tragedia quantomeno come beffa, perché nel 2010 Janukovič si prese la sua rivincita e tre anni dopo disertò un vertice a Vilnius per la sottoscrizione di un accordo di associazione e di libero scambio con l'Unione europea e optò per il consolidamento di relazioni economico-finanziarie speciali con la Russia e dunque, a conti fatti, per la scelta di blindare l'Ucraina entro la sua orbita voltando più o meno definitivamente le spalle all’Unione europea; ancora una volta, Piazza Indipendenza, Kyiv, il dissenso: dal Novembre del 2013 al Febbraio del 2014 si fronteggiarono le squadracce antisommossa e probabilmente anche i cecchini da un lato e centinaia di migliaia di manifestanti dall’altro, inquinati dai paramilitari di destra radicale di Pravyj Sektor, da quelli che avrebbero dato vita al battaglione Azov e insomma tutta quella galassia lì, galassia la cui dimensione e il cui impatto vennero prontamente e strumentalmente sovrastimati dagli avversatori della rivolta – schema che su una scala assai più grande abbiamo visto replicare qualche settimana fa, con Putin che, somigliando tragicomicamente più al Vincenzo De Luca delle dirette Facebook che a Iosif Stalin alla radio il 3 luglio del 1941, s’è spinto a dire che Kyiv è in mano a nazisti e drogati; gli ha fatto eco, ma si tratta di una strana eco, qualche giorno fa, il patriarca di Kirill, che com’è noto ha parlato di guerra contro imprecisati poteri forti gay, e dal combinato disposto di questa dichiarazione e di quell’altra sui nazisti si dovrebbe dedurre che l’Ucraina sarebbe in mano a un’élite di nazisti ineditamente gayfriendly (la propaganda d’un tempo pur nell’assoluta inverosimiglianza disponeva almeno di una coerenza logica estrema…).

Ad ogni modo i quattrocento metri quadrati di Piazza dell’Indipendenza furono lo spazio in cui si materializzò, nel 2004 e nel 2014, il cleavage europeismo/antieuropeismo, assai più credibilmente che dentro qualunque Paese membro: proprio perché si materializzò lì, al di fuori dell’Ue, la posta in gioco era ed è l’autentico anelito all’adesione, non il bluff autoassolutorio della necessaria uscita. Certo, la Brexit non fu un bluff, ma sul serio c’è bisogno di dire ancora che la sterlina, la relazione speciale con gli USA, Londra capitale finanziaria ... insomma c’è ancora bisogno di motivare la specialità di quell’uscita comunque ancora in corso e non esente da contraccolpi significativi e drammatiche ed estenuanti ri-negoziazioni?

Certo non fu un bluff nemmeno il governo giallo-verde, dalle nostre parti, con il rischio d’irreversibile spostamento a est del baricentro geopolitico del Belpaese, e gli utili idioti, nel senso leniniano dell’espressione, disciplinatamente al servizio del caos, un po’ perché dare addosso all’Ue e agli USA si portava e ahinoi si porta tuttora tantissimo, un po’ perché la cyber-disinformatia russa aveva già avvelenato loro il cervello. E molti di questi cervelli senz’altro permeabilissimi alla propaganda più naïf in virtù di gravissime lacune sul piano dell’alfabetizzazione minima e della formazione politico-ideologica (sia detto senza alcuna presunzione di superiorità) non è neppure detto che non abbiano venduto la loro linea politica per un pugno di rubli, che poi sono sempre dollari perché del rublo non ci si fida mai; sta di fatto che abbiamo rischiato grosso e che ci fu (tutto è agli atti) un cyber-attacco al Quirinale ad altissima intensità, quando Mattarella pose il veto sulla nomina di Paolo Savona all’Economia.

Ma insomma, qui e altrove fu ed è sempre stata una questione di alta temperatura politico-mediatica, il derby fra europeisti (peraltro, Bonino a parte, europeisti assai timidi) e antieuropeisti, lì a Kyiv fu una questione di freddo siberiano, manganelli che frantumavano le ossa, arresti, cento morti, ottanta dei quali, fra di loro anche poliziotti, freddati codardamente da cecchini che non si sa ancora a chi rispondessero; ora è perfino una questione di molotov, barricate con sacchi di sabbia e cavalli di frisia, ora è perfino Resistenza.
Cosa opponiamo, anche iconograficamente, alla grandiosità mitopoietica di questo europeismo resistenziale per di più al di fuori dell’Ue? La solennità di un euroconvertitore recapitato via posta ai cittadini dei Paesi membri? (Non si tratta dell’esaltazione dannunziana della guerra contrapposta alla denigrazione dell’affarismo economico-finanziario, è perfino doloroso sentirsi in dovere di puntualizzarlo).

Perché un’iconografia, gli ucraini della rivoluzione arancione e di Euromaidan, non avendola, dovettero fabbricarsela da sé, e magari anche un’idea di leadership, visto che l’Ue ne era sprovvista: non erano certo lì a morire di freddo e di manganellate e di proiettili che si conficcano dentro la scatola cranica per José Barroso, l’anti-leader a capo della Commissione europea dal 2004 al 2014 (che beffa, queste date), un’insipidezza burocratese che è l’esatto opposto del carisma del condottiero di cui avevano bisogno e che meritavano. Oggi Ursula von der Leyen fa il suo, ma la situazione è troppo diversa e troppo delicata; però, forse, il ricompattamento anche militare sta lentamente erodendo la maledizione dell’acefalia politico-mediatica dell’Unione europea, perché in fin dei conti è brutto a dirsi ma l’emersione di un soggetto quale protagonista internazionale unitario e impattante dipende primitivamente da quant’è grande e potente il suo arsenale.

Allora, invece, fu Victoria Nuland, vicesegretaria di Stato americana, a mettere un sigillo sulla marginalità dell’Unione europea, nel corso di conversazione telefonica intercettata con l’ambasciatore Usa in Ucraina: «fuck the Eu», si fotta l’Unione europea. Volevano avvicinarsi a noi e per tutta risposta l’orso russo si prese la Crimea con l’entusiasmo dei russofili da cui è abitata, trascinandoli verso il proprio centro di gravità, perché non ci fosse più un tentativo di fuga a ovest.

Il freddo e la fuga

Le temperature scesero fino a meno venticinque, durante Euromaidan, ma i manifestanti non si schiodavano dalle loro tende e la notte al più c’erano i termos a scaldarli un po’.

«Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case» è l’incipit di “Se questo è un uomo”, lo copiamo e incolliamo in ogni dove ogni 27 gennaio, giusto per illuderci che non può più replicarsi che le nostre case siano tiepide a discapito di case tende o catapecchie altrui invase dal gelo e dalla morte, o che comunque questo non possa più verificarsi nei “paraggi” lasciandoci indifferenti; a Kyiv c’erano meno venticinque gradi durante Euromaidan e ci sono meno sei gradi in quest’istante e nelle nostre case raramente si scende più giù dei diciotto, i termostati sono perfino impostati sui ventidue e oltre ed è lì che si stabilizza la temperatura, i gasdotti russi che transitano anche dall’Ucraina prima di giungere nell’Europa occidentale pompano copiosamente gas e questo flusso ci tiene al caldo.

Non ce ne importava nulla allora, ce ne importa progressivamente sempre meno adesso, vorremmo liquidare il tutto a conflitto regionale – quanta ingenuità! – per non crollare sotto il peso del duplice shock esogeno pandemia-guerra. «Hanno paura che ci stanchiamo della nostra stessa retorica» ha detto Francesca Mannocchi in collegamento da Kyiv. Cinismo, indifferenza? Deformando un po’ il senso che Dolores O'Riordan, nel suo brano più celebre, volle dare a queste parole, la risposta è semplicissima: «vedi, non si tratta di me o della mia famiglia».

“Zombie” è stata intonata da alcuni giovanissimi manifestanti pacifisti russi mentre la polizia li trasportava verso l’inferno delle torture di caserma. Ma con loro abbiamo un alibi: l’universalismo dei diritti umani impatta nel dominio riservato, sono roba di Putin, non possiamo aiutarli; gli ucraini invece ci vengono incontro, nella ricerca disperata dei diritti umani e del benessere, e noi per tutta risposta fuggiamo.
Come nel 2014 fuggì senza nemmeno l’alibi di una guerra Victor Janukovic, il protégé di Putin. Zelensky invece è rimasto, sotto le bombe.

(fine prima parte)  (qui la seconda parte)