Gualtieri e Michetti grande

Dal punto di vista tattico, Calenda che annuncia di votare gratis per Gualtieri al ballottaggio, dopo che le analisi del voto hanno confermato che la netta maggioranza dei suoi elettori si qualifica “di sinistra”, minimizza il danno di una delle querelle ideologiche che a sinistra vanno alla grandissima, quella sulla intransigenza antifascista, che è in genere l’alibi costituzionale della faziosità e dello spirito della tribù degli autoproclamati “migliori”, scandalizzati dal fascismo sottosviluppato dei saluti romani nelle chat o nella suburra e volonterosi fiancheggiatori del fascismo ipersviluppato dei bastonatori istituzionali, che eleggono il diritto penale a strumento di pulizia sociale (Bonafede) o gli scafisti libici ad outsourcer della legalità migratoria (Di Maio).

Ma Calenda non è un commentatore o un analista, né un semplice attivista. È un attore politico che ha trasformato la Capitale nel palcoscenico dell’unica rappresentazione non scontata di queste elezioni, dell’unica novità sostanziale di un voto che il PD ha fretta di ricondurre nell’o di qua o di là e dunque ha fatto bene, perché la politica esige queste acrobazie paradossali, a mettere il suo voto personale nell’urna di Gualtieri, per affermare di essere una cosa diversa sia da lui, sia da Michetti.

Chi non ha le sue responsabilità, ma parteggia per il suo tentativo romano e ora nazionale di sparigliare le carte nella bisca bipopulista ha una maggiore libertà, anche quella di considerare l’antifascismo giocato in modo così burocratico e ideologico – se non voti per Gualtieri, sei un fascista – l’equivalente dell’onestà della campagna grillina di un quinquennio fa, con l’accusa disonesta di corruzione a chiunque si opponesse al disegno di “disinfestare Roma” (sic) – se non voti Virginia, sei complice della mangiatoia. In ogni caso, un normale elettore può, anche dopo l’endorsement di Calenda, ritenere che votare Gualtieri per non avere Michetti esiga logicamente che Gualtieri faccia le cose che Michetti non farebbe e non faccia quelle che Michetti farebbe.

Invece appare abbastanza chiaro che i due non farebbero cose diverse (diverse tra loro e diverse da prima) nel rapporto con la burocrazia romana, con i centri di potere e di rendita interni e esterni all’amministrazione, con Ama e Atac, con una governance complessiva dei servizi che spende stabilmente di più per offrire regolarmente di meno di qualunque città decente, con la retorica vittimista per cui Roma è sempre in credito con qualcuno, mentre è da anni in debito con i contribuenti italiani e campa di rendita su una grandeur stracciona, che Michetti trasformerebbe in un grottesco poveraccismo finto-imperiale e Gualtieri proseguirebbe in forma più sobria, ma altrettanto obbligata, perché Roma è un’altra cosa, è sempre un’altra cosa, e questo eccezionalismo assurdo è peraltro tutta farina del sacco della sinistra romana.

Perfino su Ita (ex Alitalia) – romanissima vergogna italiana, autobiografia politico-economica della Nazione e della Capitale – Gualtieri dice le stesse cose di Michetti (nessun licenziamento, ammortizzatori sociali sine die, norme contrattuali fuori mercato), perché le aziende romane e i lavoratori romani (almeno quelli con entrature a Palazzo) meritano sempre un trattamento particolare e uno speciale riguardo.

L’alternativa politica tra Gualtieri e Michetti è oggi smentita proprio da questa differenza che non c’è, che non si vede e che non si deve vedere, perché a Roma vincere le elezioni e governare decentemente la Città (per i romani e per gli italiani che pagano le inefficienze romane) sono due imprese incompatibili e quindi per non perdere le elezioni è meglio cronicizzare il degrado di una Città perduta. Ed è questa la continuità tossica, la cattiva educazione politica eretta a sistema, che la finta alternativa tra Gualtieri e Michetti può provare a nascondere, ma non cancella.