Matteo Renzi è attualmente il pungolo antipopulista – laddove per populismo s'intende il keynesismo andato a male dei "bonus" e il dilettantismo di Conte-Casalino – di questa maggioranza di governo, poco importa se in buona fede o se incidentalmente e strumentalmente, per ottenere un rimpasto e accedere alla Farnesina o al Ministero della Difesa come ruolo prodromico alla sua ipotetica nomina come segretario generale dell'ONU (così scrive qualche retroscenista; del resto l'amicizia personale che lega l'ex premier al presidente-eletto degli USA è nota). Quel che è curioso è che agisce forte del suo cosiddetto "potere di coalizione", ponendo il tradizionale "veto del piccolo partito" e rischiando di aprire una crisi al buio.

Sono tutti scenari che stigmatizzava come anticaglie primo-repubblicane e che voleva definitivamente archiviare con il celebre combinato disposto Italicum - ddl Boschi, introducendo fra le altre cose un quasi-monocameralismo: oggi punzecchia il Governo proprio da quel Senato che nella sua riforma veniva "spoliticizzato" (vi veniva infatti parlamentarizzato il raccordo tra centro e periferia) e che tuttavia viene alternativamente con la Camera neutralizzato in quel monocameralismo appunto alternato ormai vigente nel nostro sistema politico-istituzionale: una Camera approva un disegno di legge a ridosso di una scadenza così imponendo all'altra di approvarlo a scatola chiusa.

Così ci teniamo i "contro" del bicameralismo paritario (doppia fiducia, destabilizzante nell'ambito del rapporto esecutivo-legislativo, specie quando elettorato attivo e passivo delle due Camere sono disomogenei; assenza di una Camera dei territori) senza beneficiare degli ipotetici "pro" (o dell'unico ipotetico "pro", cioè una ponderazione "in due tempi" dei disegni di legge nell'iter di approvazione). Com'è noto, la revisione grillina della Costituzione che entrerà in vigore dalla prossima legislatura ha blindato il bicameralismo paritario, probabilmente imporrà la radicalizzazione dello stesso in un bicameralismo assoluto (è intenzione del legislatore omogeneizzare elettorato attivo e passivo delle Camere onde evitare maggioranze eterogenee tanto più ingestibili quanti meno saranno i parlamentari) se non perfino in un "monocameralismo scomposto" (il Pd vorrebbe inserire nel pacchetto di correttivi "post-taglio" la valorizzazione del Parlamento in seduta comune: vorrebbero farne, fra le altre cose, anche la "sede unitaria di indirizzo politico": magari le due Camere si potrebbero riunire proprio per votare la fiducia al Governo).

Il "taglio" imporrà in ogni caso una proporzionalizzazione del sistema elettorale: stante il significativo ridimensionamento di ambedue le Camere, nei maxi-collegi "post-taglio" le soglie di sbarramento implicite sarebbero infatti alte con un sistema appunto proporzionale: con un sistema maggioritario o anche solo quasi-maggioritario si rischierebbe una sottorapresentazione di fatto insostenibile (dunque avremo soglie di sbarramento elevate senza ricavarne alcun guadagno in termini di governabilità: questo è il capolavoro d'ingegneria istituzionale grillino avallato per pavidità da sovranisti e sedicenti antipopulisti).

L'attuale tenzone primo-repubblicana tra Renzi e Conte è dunque la nuova normalità, come lo sarà qualunque ipotetico sbocco altrettanto primo-repubblicano della stessa – Conte-ter, rimpasto, crisi al buio ecc –, con l'unica non trascurabile differenza che prima c'erano i partiti e adesso ci sono comitati elettorali verticistico-personalistici con "issue" estemporanee anziché piattaforme politico-ideologiche (insomma, salvo qualche eccezione tutto rischia di degenerare in un "presentista" e perlopiù a-ideologico scontro fra personalismi).

E dunque cos'è realistico aspettarsi, per il prossimo futuro, con l'attuale struttura politico-istituzionale? È ragionevole sperare in un repulisti dopo-pandemico? La transizione verso una Terza Repubblica post-populista simile al balzo verso la Seconda Repubblica post-partitocratica nel '92-'93? Andrebbe bene, s'intende, purché non si verifichi un déjà-vu "manipulitista": la transizione da una stagione politica a un'altra in una repubblica democratico-liberale e non giudiziaria/giustizialista è bene avvenga appunto politicamente, non giudiziariamente.

Nonostante tutto, ci sono diverse ragioni per ritenere non implausibile la suddetta transizione: da un lato, terminato quello che i politologi inglesi chiamano "rally ‘round the flag syndrome", ovvero il super-consenso di cui godono i leader durante le fasi iniziali di un'emergenza, terminerà (sta già terminando) anche la stagione casaleggese-casaliniana, forse assisteremo alla sconsacrazione di Conte, presidente del consiglio che potremmo ri-battezzare – in omaggio a Harvey Dent, uno dei più affascinanti villain di Batman – "due facce" (una salviniana-cattivista e, all'occorrenza, una progressista-buonista); dall'altro i miliardi del Next Generation EU e del quantitave easing emergenziale hanno forse avviato la "de-nazionalpopulistizzazione" della destra salvinian-meloniana, con i loro economisti di riferimento (Borghi, Bagnai) al seguito.

Quel che è certo, tuttavia, è che dopo il "No" sistematico a qualunque evoluzione maggioritaria-presidenzialista e dopo la pur popolarissima sforbiciata grillina, il nostro sistema politico-istituzionale lascerà poco spazio a scenari dissimili da quel consociativismo post-partitico che stiamo sperimentando sin da adesso, populista antipopulista o "mista" che sia la classe politico-parlamentare che succederà all'attuale nella stagione dopo-pandemica.