Il dibattito sulle riforme istituzionali è all'ordine del giorno. Sperando vivamente che questa non sia l'ennesima, ciclica discussione infruttuosa sulla seconda parte della Costituzione, ma che si risolva una volta tanto in modifiche concrete, organiche e coordinate, vorrei analizzare uno dei punti più delicati sul quale si dibatte in questi giorni: la riforma del bicameralismo perfetto (mediaticamente ridotta a "l'abolizione del Senato").

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Il sistema bicamerale italiano è praticamente un unicum nel contesto degli ordinamenti occidentali poiché oltre ad attribuire le medesime funzioni, prerogative e facoltà ad entrambe le Camere del Parlamento, ponendole esattamente sullo stesso piano (è questo che si intende propriamente per "bicameralismo perfetto"), non ne differenzia la composizione.

Lasciando da parte il numero dei membri, le uniche caratteristiche sulle quali oggi, ai sensi della Costituzione, la Camera dei Deputati dovrebbe distinguersi dal Senato della Repubblica sono due: differente età minima dei Parlamentari eleggibili (25 anni per i Deputati, 40 per i Senatori) e differente modalità di elezione, stante la previsione dell'elezione del Senato "a base regionale"e la differenza di elettorato attivo (votano per la Camera i cittadini maggiorenni e per il Senato quelli che hanno già compiuto 25 anni).

Queste due distinzioni non incidono minimamente sul funzionamento del Parlamento nella sua attività legislativa visto che, indipendentemente da chi le compone, le Camere hanno sempre gli stessi poteri; negli intenti del legislatore costituzionale questo sistema avrebbe dovuto garantire due Camere sostanzialmente diverse nei componenti e dunque negli interessi da questi rappresentati. Tuttavia questo obiettivo è stato praticamente vanificato dalla portata pratica molto limitata delle disposizioni stesse: la prescrizione dell'elezione del Senato "a base regionale" contenuta nell'art.57 della Costituzione non ha mai portato ad una Camera Alta rappresentativa degli interessi delle Regioni (basti notare come spesso vengano candidati in una regione Senatori nati e residenti in un'altra), risolvendosi piuttosto in un'indicazione sulla formazione delle circoscrizioni elettorali, appunto coincidenti con i territori delle Regioni, a differenza delle circoscrizioni elettorali per la Camera dei Deputati.

Le ragioni per cui i nostri Padri Costituenti scelsero questa ripartizione parlamentare erano sostanzialmente di garanzia: con la struttura di Parlamento bicamerale perfetto un ramo può sempre fungere da "camera di raffreddamento" sulle proposte provenienti dall'altro ramo; la ratio in parole povere sarebbe la seguente: "una singola camera nello svolgere l'attività legislativa potrebbe abusare del proprio potere e agire secondo interessi che non corrispondono all'effettiva volontà popolare, ma se sono due, separate e (teoricamente) composte in maniera diversa, allora l'una potrà tenere d'occhio l'altra". Le conseguenze pratiche più rilevanti sono tuttavia quelle negative degli iter legislativi infiniti, ove una proposta approvata da una camera, venendo emendata anche per una singola virgola nell'altra, dovrà nuovamente tornare alla prima per essere votata nella sua ultima versione e così via per un botta e risposta che potenzialmente potrebbe andare avanti all'infinito. L'assoluta parità fra le due camere infatti impedisce che una delle due possa avere l'ultima parola sull'altra.

Una riforma seria e ragionevole dovrà certamente agire su un duplice piano: quello della composizione delle Camere, stabilendo un criterio chiaro per garantire che i due rami del Parlamento siano diversi per provenienza e per interessi rappresentati, e quello dei poteri degli stessi, attribuendo finalmente ad una Camera il diritto di avere l'ultima parola in merito all'approvazione di un progetto di legge.

In casi come questo la prospettiva comparatista del diritto pubblico permette di sfruttare l'esperienza sviluppata da altri per trovare la soluzione concreta più adeguata alle nostre necessità, prospettiva che non va tuttavia abusata, tenendo dunque in debita considerazione i contesti culturali, sociali e istituzionali entro cui si sono sviluppate le diverse strutture pubblicistiche. Il dibattito al riguardo ha avuto un'impennata dopo le recenti dichiarazioni di Matteo Renzi. Le proposte del PD rappresentano, con qualche peculiarità, la posizione verso la quale sembra propendere anche il centro-destra: si propone in sostanza un bicameralismo volto a differenziare una Camera eletta a base nazionale, la Camera dei Deputati, con funzione legislativa piena e incaricata di concedere o negare la fiducia al governo, da una seconda Camera, il "Senato delle Autonomie" rappresentativa invece degli enti locali, che avrebbe la facoltà ponderare, seppur da una posizione di subordinazione, le decisioni dell'altra. Un modello che di fatto si ispira a quello adottato dai paesi più o meno federali. Difatti è così negli Stati Uniti, dove al Senato siedono due rappresentanti di ogni Stato (indipendentemente dalle dimensioni e dalla popolazione di questo), mentre alla House of Representative i rappresentanti nazionali, eletti con sistema proporzionale; simile è il bicameralismo in un altro stato federale, la Germania, dove il Bundestag (dieta federale) rappresenta l'intero elettorato, mentre il Bundesrat (consiglio federale) i diversi Lӓnder. Su questo stampo si forma anche il più recente assetto bicamerale della Spagna, dove il Senato è descritto dalla Costituzione stessa come "camera di rappresentanza territoriale". Non molto dissimile infine è il bicameralismo francese, dove però il Senato (anche qui, camera rappresentativa degli enti locali) è eletto a suffragio indiretto da consiglieri comunali, dipartimentali e regionali, oltre che dai membri dell'altra camera.

In tutti questi sistemi la Camera eletta a suffragio nazionale ha sempre l'ultima parola in merito all'approvazione delle leggi e questo previene il rischio, a noi ben noto, di bloccare i processi legislativi per l'ostinatezza di un ramo parlamentare; unica eccezione sono gli Stati Uniti, dove tuttavia in caso di dissenso sostanziale fra le due camere viene ogni volta istituita un'apposita commissione bicamerale per trovare un accordo.

La soluzione proposta in Italia, ispirata nelle sue linee generali a questi sistemi, non mi sembra però adeguarsi concretamente alla complessa realtà del nostro Paese.
Bisogna infatti considerare il processo di forte decentramento a favore delle regioni sul solco del quale si è proceduto in Italia negli ultimi anni: le riforme costituzionali del 2001 hanno infatti attribuito importanti materie, prima di competenza esclusiva dello Stato, alla legislazione concorrente o alla potestà delle Regioni, che per altro sono competenti su "ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (art.117 Cost.); per non parlare poi del federalismo in salsa leghista che ha portato sprechi fiscali dove voleva portare risparmi e virtuosismi. Questo processo di decentramento verrebbe profondamente contraddetto da una riforma che propone invece di accentrare in un organo "centrale", come appunto un'ipotetica "Camera delle Regioni" gli interessi di queste.

Le Regioni e gli altri enti locali hanno già importanti strumenti per far arrivare le proprie istanze a Roma, basti pensare alla Conferenza Stato-Regioni o alla facoltà di ogni singolo Consiglio Regionale di promuovere questione di legittimità costituzionale dinnanzi alla Corte Costituzionale quando ritenga che una legge dello Stato violi la sua sfera di competenza.

Una soluzione a mio parere più adeguata alle esigenze del nostro Paese potrebbe essere ispirata a un modello come quello britannico, tipico esempio di bicameralismo imperfetto. Nel Regno Unito infatti, la House of Commons (Camera dei Comuni), eletta a suffragio universale, è titolare esclusiva della rappresentanza dell'elettorato, mentre i componenti della House of Lords (Camera dei Pari) sono membri non eletti, bensì nominati fra professori universitari, economisti, industriali e comunque personaggi di grande esperienza "tecnica" e professionale, nei rispettivi contesti. Tralasciando in questa sede le peculiarità tipicamente "british", come la quota riservata a Lords di estrazione clericale e l'ereditarietà di un ristretto numero di seggi, non possiamo non notare come le nomine "tecniche" possano venire sostanzialmente incontro alla necessità, particolarmente sentita in Italia, di vedere costantemente all'opera soggetti competenti e scelti in quanto esperti delle rispettive materie. Un sistema fatto proprio, mutatis mutandis, anche dall'Unione Europea dove le competenze tecniche sono rappresentate dalla Commissione, un organo appunto "tecnico" che opera indipendentemente da quella che invece è la sede deputata a rappresentare politicamente la volontà dei cittadini europei, ossia il Parlamento.

Napolitano è ricorso spesso all'ausilio della consulenza dei "saggi", prima i dieci che dovevano tracciare la road map del governo e in un secondo momento i 35 che dovevano porre le basi per una grande riforma costituzionale che poi è caduta nel dimenticatoio; proprio come "saggi" (anche se allora andava di moda nominarli "tecnici") erano i componenti del Governo Monti, chiamati proprio per riprendere le redini di un Paese che per colpa di una politica fondata su rapporti di amicizia, di conoscenza e di clientelismo anziché su curricula solidi e riconosciuti, aveva dimenticato il vero senso di parole come "merito" e "competenza".

Perché dunque non cogliere quest'occasione di rinnovato dibattito sul tema per istituzionalizzare, attraverso una camera appositamente dedicata, la presenza di una classe tecnica e competente, capace di dare il proprio contributo al processo legislativo di volta in volta e non chiamata ripetutamentein via eccezionale (come appunto le commissioni dei saggi o il governo tecnico)?

Secondo questo schema si profilerebbe dunque una Camera dei Deputati, elettiva e depositaria unica e assoluta della volontà popolare, accostata da un Senato composto di membri "tecnici". L'iniziativa legislativa, a rigor di logica, dovrebbe essere unicamente della Camera dei Deputati, così come a questa Camera dovrebbe spettare il diritto di ultima parola; al Senato "tecnico" spetterebbe invece un contributo appunto tecnico, ossia fondato su ragioni di opportunità pratica anziché meramente politica, che potrebbe evitare l'approvazione di leggi incomprensibili, inapplicabili o contraddittorie.

Per completare l'analisi di questo sistema bisogna infine stabilire chi debba effettuare le nomine: una soluzione potrebbe essere quella della nomina di un terzo dei Senatori da parte del Presidente della Repubblica e dei restanti due terzi ad opera della Camera dei Deputati che svolgerebbe questo compito durante la prima seduta della legislatura. Il rapporto di fiducia, proprio come negli altri sistemi bicamerali imperfetti sussisterebbe unicamente fra il Governo e la Camera dei Deputati e la decadenza della seconda comporterebbe automaticamente la decadenza anche del Senato.

In conclusione. Non esiste, come già detto, una soluzione perfetta e che porti a risultati certi. L'unica certezza che oggi hanno tanto i cittadini quanto il legislatore, è l'assoluta inadeguatezza di questo nostro bicameralismo all'esigenza sempre più impellente di leggi urgenti ed immediatamente esecutive, la cui approvazione non può più passare da un iter pluriennale, o dalla decretazione dell'esecutivo (che in teoria dovrebbe essere strumento eccezionale, in occasioni di emergenza): da questo presupposto bisogna partire per trovare la soluzione più adeguata, che non può però essere l'ennesimo proclama politico e che soprattutto non deve essere volta a favorire interessi politici particolari.