cerasa ferrara grande

Leggendo le motivazioni che Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, rispettivamente l’11 e il 12 agosto sul Il Foglio, hanno addotto a sostegno del Sì al referendum costituzionale sul taglio del numero di deputati e senatori, chi è avvezzo ad analizzare testi e discorsi qualche dubbio deve averlo avuto. Specialmente se è solito non dare mai per scontata la bontà delle affermazioni altrui, soprattutto quelle che troppo sbrigativamente sono proposte come ovvie. Ma quelle motivazioni richiedono un’analisi ravvicinata perché sono espresse non dai demagoghi incompetenti che quella revisione hanno voluto, i 5 stelle, ma dal direttore e dal fondatore di un giornale che certo col populismo non vuole confondersi e sono rappresentative di una posizione a favore del Sì che si vorrebbe ragionevole e moderata e che coinvolge uno dei due partiti di maggioranza, il partito democratico. 

Cominciamo dal fondatore e vediamo la sua tesi: Ferrara ammette che sia ripugnante votare per una riforma giunta sull’onda della demagogia anti-casta. Ma il ripugnante apparterrebbe all’universo dell’emotività e per questo ci si può passare sopra, se si vuole agire razionalmente. Non ammessa e non concessa questa premessa, sulla quale torniamo però in conclusione, proseguendo vediamo che impedire la riduzione dei parlamentari, «da sempre una chiave di volta del riformismo costituzionale», sarebbe invece grottesco, autolesionistico. Bene. Ma quando mai la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe rappresentato la chiave di volta del riformismo costituzionale?

Quello che Ferrara presenta come ovvio, scontato, non solo non è tale, ma è proprio non vero, se alle parole diamo il loro significato: contro la chiave di volta si regge l’intero arco e nessuna fantasia costituzionale può portarci a sostenere che la riduzione dei parlamentari costituisca la riforma chiave sulla quale costruire un nuovo disegno. Lo stesso ex direttore lo ammette poco dopo, definendolo un frammento, non ininfluente, ma forse non il più importante. Infatti. Ma il richiamo alla chiave di volta nelle righe precedenti serviva per ‘reggere’ l’argomentazione a favore del Sì.

Le affermazioni che si vogliono auto-evidenti, necessarie a sostenere la tesi (ovvero le ragioni del Sì), e che sono invece ampiamente e facilmente contestabili, si susseguono una dopo l’altra: come il fatto che con meno parlamentari i capi di commissione diverrebbero contro-ministri effettivi (per quale magia, se null’altro cambia?); le discussioni di leggi e decreti diverrebbero meno «alambiccate» (anche qui: oggi lo sono e quanto lo sono? È il numero dei parlamentari che le rende eventualmente tali o altri fattori come i regolamenti parlamentari? La farraginosità dei processi legislativi quanto dipende dal parlamento stesso e quanto dalle divisioni e debolezze dei governi?); la funzione di controllo sarebbe meno difficile (perché?). In conclusione, per Giuliano Ferrara sarebbe grottesco rinunciare a «rivalutare la buona politica» solo perché a favore del Sì vi sono anche «miserabilini» argomenti demagogici. Il problema è che se quegli argomenti miserabilini senza alcun dubbio ci sono, il modo in cui questa buona politica dovrebbe apparire se la riforma costituzionale passasse rimane non detto, non spiegato, una specie di articolo di fede.

La tesi di fondo di Claudio Cerasa è, invece, che non bisogna regalare ai populisti una battaglia che populista non è. Per dimostrare che populista non è, il direttore del Foglio fa notare innanzitutto che il numero di deputati per 100 mila abitanti dopo la riforma non sarebbe dissimile a quello di altri grandi democrazie. Peccato che la stessa cosa è vera, anzi, molto di più, per il parlamento attuale. Ma vabbè. Proseguendo, Cerasa ricorda che per decenni si sono abbozzate o tentate riforme dell’assetto istituzionale, che contenevano anche la riduzione dei parlamentari.

Vero. Ma forse questo rende sensata una mera diminuzione dei parlamentari perché in passato sono state proposte più complesse e articolate innovazioni che la contenevano? Ovviamente no. La teoria sistemica ci insegna che i sistemi non sono la mera somma delle parti, ma il prodotto delle loro interazioni. Quindi la «logica dello spezzatino» che il direttore propone, in realtà non è una logica, è una scelta residuale rispetto all’obiettivo di fare comunque una riforma, ma perché quella riforma andrebbe fatta non è detto.

Tant’è che la logica dello spezzatino viene messa in connessione non con un fine riformista, ma con la tesi di fondo che non bisogna regalare la battaglia ai populisti. E se una connessione con il fine riformista è tentata, è priva di una base logica: si dice che «un riformismo con la testa sulle spalle» dovrebbe non regalare la battaglia ai populisti pensando a quali correttivi futuri aggiungere a questa riforma. Ma perché bisogna fare una riforma sapendo che bisognerà poi correggerla? E chi ci garantisce che sarà corretta? A conclusione della sua riflessione, Claudio Cerasa - come Ferrara - ricorre all’uso di un implicito apparentemente ovvio, sostenendo che la ‘battaglia’ per la diminuzione dei parlamentari sarebbe una battaglia per l’efficienza della politica, ma non una sola riga è dedicata a spiegare il perché. In realtà non sembra affatto convinto delle ragioni del Sì, tanto che nel suo intervento non si trova una sola concreta ragione a favore dell’approvazione popolare della riforma costituzionale. Più spavaldamente Ferrara ne propone invece molte, nessuna argomentata, ognuna presentata come un articolo di fede.

Entrambi, infine, minimizzano le conseguenze della vittoria del Sì sul sistema politico, proponendo una lettura dell’evento referendario priva di connessioni con la concreta realtà politica. Infatti, a differenza di quanto Ferrara e Cerasa auspicano, la vittoria del Sì sarebbe comunque una vittoria dei populisti, perché questa ‘battaglia’ è loro sin dall’inizio. I fenomeni politici non assumono un significato sulla base di più o meno puntigliose ricostruzioni di loro nessi col passato, essi acquisiscono un senso collettivo immersi nelle narrazioni più forti e diffuse del momento.

Non sarà qualche liberale o liberal a trasformare il sostegno referendario al Sì in una marcia progressiva verso l’efficienza dello Stato, tanto più che nessun liberale o liberal è riuscito a spiegare da dove mai dovrebbe uscire questa efficienza, da quale cilindro magico. Sui balconi a gridare come ossessi saliranno di Maio e compagnia, le grida di giubilo richiameranno le gogne, non la funzionalità del parlamento.

Il ripugnante che secondo Ferrara in virtù della ragione si potrebbe accettare perché in fondo è solo un moto dell’umore, non è solo nell’input iniziale del processo che ci ha portato a questo referendum, è anche nella «cosa» sulla quale si decide, per la sua natura bislacca (un taglio ai parlamentari senza ragione pratica e logica alcuna), bislacca proprio per quell’input iniziale; e quel ripugnante è anche negli spettacoli che si paleseranno davanti a noi con la vittoria del Sì. Ed è un ripugnante che non ha a che fare con il pathos, ha a che fare con l’ethos.

Questa ripugnanza non sgorga dagli umori, ma dalle convinzioni etiche. Non lasciare ai populisti le loro battaglie, fingendo che non siano esse stesse populiste, solo perché ci si vuole credere, senza però riuscire a dimostrarlo, e portando così acqua al loro mulino, non porta a scartare moti ed emozioni, come vorrebbe Giuliano Ferrata, porta a scartare una certa etica della politica, quella che con fatica resiste ai populismi.

@Sofiajeanne