quirinale

Quanti settant'anni fa decisero (di stretta misura sui contrari) che l'Italia dovesse diventare una Repubblica non punirono solo le colpe di una monarchia corresponsabile del ventennio fascista e poi in fuga, dopo l'8 settembre, oltre le linee nemiche. Pensarono anche di riscattare gli errori di un Paese che, come la monarchia, dal fascismo per anni si sentì più rappresentato che dominato e che una nuova forma di Stato (appunto repubblicana) e una nuova Costituzione democratica avrebbero dovuto vaccinare dal rischio di una recidiva autoritaria.

Fu però questo un processo tutt'altro che lineare e coerente, perché - come è noto - la scelta democratica dei partiti costituenti era unanime, ma tutt'altro che unanime era il loro radicamento nella cultura democratica propriamente intesa e l'instaurazione della Repubblica maturò da una profonda spaccatura geografica e politica tra il Nord repubblicano e il Sud monarchico, non dall'emergere di un nuovo ethos nazionale condiviso.

Il carattere definitivamente repubblicano dello Stato italiano (perché sottratto dall'articolo 139 della Carta alle procedure di revisione) e una Costituzione oltremodo rigida e imperitura nei suoi proclamati valori fondativi non vennero quindi varati da un Paese raccolto in un ideale comune, ma da un'Italia inguaribilmente divisa dalla frontiera della Guerra Fredda e da fratture culturali, economiche e civili che nei settant'anni successivi si sarebbero purtroppo aggravate e non ricomposte.

Quanti oggi contrappongono i sacri principi della Costituzione alla riforma che a ottobre giungerà al voto degli italiani reinventano un mito originario che appartiene alla mitologia post-resistenziale, non alla storia italiana. La "verità politica" della Repubblica e della Costituzione è nelle contraddizioni di un processo politico che vide l'Italia ancorarsi saldamente al sistema democratico non con il voto del 2 giugno del 1946 - con cui gli italiani decisero per la Repubblica e elessero l'Assemblea costituente - ma con quello del 18 aprile 1948.

Della Repubblica e della Costituzione di allora, malgrado le riforme costituzionali nel frattempo approvate, è rimasto in piedi il presupposto ideologico più anacronistico, che individua nella confusione, non nella divisione dei poteri, un argine all'esercizio del potere "assoluto". Su questo punto, che ha portato a qualificare le forme di governo presenti in tutte le più grandi democrazie del mondo - il presidenzialismo, il semi-presidenzialismo, il premierato, il cancellierato - come dei pericolosi affronti al carattere democratico delle istituzioni politiche, si è fermato negli ultimi decenni qualunque processo riformatore. O in Parlamento, come le tante bicamerali, o nelle urne, come è avvenuto nel referendum confermativo del 2006.

È presto per dire ciò che succederà tra qualche mese sulla riforma Renzi-Boschi, ma quel che si può dire è che questa mitologia "anti-governista" ne ha prodotta una uguale e contraria, più ingenua, ma altrettanto ideologica, che individua nel continuo rimaneggiamento dei dispositivi elettorali e istituzionali la via che porta miracolosamente alla "governabilità".

Cosa smentita dall'esperienza, se nell'ultimo ventennio sistemi elettorali maggioritari o a premio di maggioranza che, teoricamente, garantivano un risultato certo e una sicura imputazione della responsabilità del governo e dell'opposizione hanno visto esecutivi con ampie maggioranze - si pensi al primo Prodi o all'ultimo Berlusconi - squagliarsi al fuoco delle proprie contraddizioni e di una eterogeneità non formale, bensì sostanziale. La stessa che potrebbe pagare il PD, anche se l'Italicum gli assegnasse i numeri per un governo monocolore nel 2017 o nel 2018.

@carmelopalma