miseria e nobilta grande

C’è una contingenza tragica che sembra sfuggire agli Orlando, ai Provenzano, ai Felice, agli intellettuali perbene della sinistra d’antan, scatenati nel proclamare la necessaria rivincita solidarista contro l’egoismo liberista.

Per loro è “liberista” anche Salvini e qualunque ricettatore del bottino fiscale a fini di compravendita del consenso; dunque lo sono anche gli alleati del M5S, la nuova costola di destra della sinistra, l’ingrediente populista del demo-populismo leftist? "Liberista" è anche il salvataggio di Alitalia? “Liberista” in senso deteriore allora è anche il PD, che vuole mettersi in società con il mercato portando un capitale di deficit e pretendendo alti dividendi politici e economici dalle imprese “salvate”?

Insomma, se sono liberisti tutti quelli che vogliono fare soldi coi soldi degli altri, i più liberisti sono proprio quelli che trafficano con quelli dei contribuenti, no?

La contingenza economica che sembra sfuggire a questi anti-liberisti di professione è quella di un Paese in cui i “padroni” hanno battuto in ritirata, si sono rifugiati nei mercati protetti e amministrati o si sono internazionalizzati. L’Italia – che sfugge al moralismo “antiliberista” dei nuovi titolari del Nazareno – è un ambiente economico abitato di animali fragili di piccola taglia e di mostruosa vulnerabilità e gravemente respingente per animali evolutivamente più attrezzati, ma incompatibili con le abitudini del tradizionale “capitalismo di relazione” e con la pretesa di uno Stato straccione di entrare in società con loro, per comandare in nome del popolo sovrano.

Nessuno diventa il Venezuela per scelta, ma per un errore di calcolo. E l’impressione è che il PD stia sbagliando i conti su tutta la linea e si sia incamminato sulla strada che porta a Caracas, spinto dai venezuelani d'elezione di marca grillina.

In Italia non ci sono più pecore da tosare e non da ammazzare, secondo l’insegnamento di Olof Palme, quando ancora a Botteghe Oscure si cazzeggiava ancora con l’eurocomunismo e con le terze vie tra il socialismo democratico e il modello sovietico dell’est europeo. C’è una fauna imprenditoriale sempre più spelacchiata e tutt’altro che in salute, che per condizioni strutturali (governance, dimensione, capitalizzazione, esposizione all’export) rischia di pagare la de-globalizzazione da Covid molto pesantemente, e che è difficile pensare di salvare con interventi micro-settoriali e con negoziati che offrano corrispettivi economici (dove e di chi sono i soldi dello Stato? Della BCE, del Mes, insomma degli “altri”) in nome di una anacronistica servitù e obbedienza politica.

Tutto il chiacchiericcio pettegolo su FCA – per cui il problema, su cui il Governo non ha armi negoziali, non è se riporta la sede fiscale della capogruppo in Italia, ma se porta le produzioni all’estero – è il manifesto di arroganza e di impotenza di una classe dirigente che non sapendo dove sta andando la storia, la vorrebbe di peso e ex lege riportare alle buone cose di pessimo gusto della tradizione italiana, dove ad esempio la CGIL pensa di ricattare FCA sulla garanzia di Sace con una minaccia di para-nazionalizzazione.

Sembra la scena di Miseria e nobiltà in cui don Pasquale pensa di procurarsi un pranzo luculliano lasciando in pegno un cappotto sdrucito o, peggio, la trama di Good Bye Lenin in cui tutto il gioco è non fare capire a una devota della DDR risvegliatasi dal coma che il Muro di Berlino è caduto e il comunismo è finito.

@carmelopalma