barca tricolore grande

Alla base della crisi della democrazia italiana e dell’ascesa di maggioranze populiste e sovraniste c’è un fenomeno “strutturale” e comune a molte democrazie occidentali: quello dell’interruzione del circuito della responsabilità politica e della trasformazione del processo democratico in una sorta di gioco d’azzardo collettivo, in cui ciascuno fa la sua puntata nella speranza di pescare il numero fortunato.

Siamo ben oltre il fisiologico particolarismo politico e la tendenza “naturale” all’accaparramento di risorse o benefici pubblici da parte di constituency elettorali – sociali, territoriali, ideologiche… - che promuovono i propri interessi. La democrazia in Italia (e non solo in Italia: si pensi alla Brexit) è diventata una Sala Bingo o un Casinò delle illusioni, in cui la domanda politica è sempre più sganciata non solo da qualunque valutazione (per opinabile che sia) del bene comune o dell’interesse collettivo, ma anche della concreta possibilità di soddisfare la somma di interessi particolari che teoricamente si vorrebbero premiare. 

Ciò che grandi leader democratici di straordinario successo e maggioranze elettorali poderose ormai hanno psicologicamente rimosso è che le democrazie per funzionare (cioè per favorire la difesa della libertà individuale e la diffusione del benessere collettivo) devono sì rispettare principi giuridico-costituzionali (cioè essere liberali), ma non possono in ogni caso prescindere da un’etica del discorso razionale. La passione “erotica” della politica democratica, che è ciò che rende vivi e umani i processi istituzionali – le elezioni, la formazione dei governi, la discussione delle leggi…– non può privarsi di un alfabeto o di una grammatica che renda lo spazio pubblico davvero “comune” e le proposte discutibili e confutabili.

Anche senza votarsi all’ottimismo, paradossalmente idealistico, di Popper che pensava il processo democratico come un meccanismo di verifica e falsificazione di ipotesi che non resistessero alla prova dei fatti, la democrazia resiste solo se rimane agganciata a un principio di razionalità politica. Insomma, una politica democratica ha bisogno di uno statuto non solo giuridico, ma epistemologico. Liberandosene, nell’illusione di emanciparsi da meccanismi di condizionamento o di controllo subdoli e segreti, si perverte e non casualmente sfocia in una ideologia di violenza e di sopraffazione.

La principale infrastruttura del consenso populista è oggi costituita da un insieme di “verità parallele” che non solo smentiscono le laiche (cioè razionalmente discutibili) verità della scienza, dell’economia o della demografia, ma promuovono un’etica del discorso puramente retorica e meccanismi di persuasione e di auto-persuasione che mettono in dubbio la stessa possibilità di una discussione razionale. La razionalità democratica non viene semplicemente “occupata” da un sistema di fake news, ma ripudiata e sostituita da una teoria che vede in ogni verità semplicemente la proiezione di un interesse e quindi legittima la costruzione di verità alternative corrispondenti a interessi alternativi.

È esattamente la logica del “muro” trasferita nella dialettica politica: non abbiamo niente in comune, neppure una razionalità di base, con chi non è come noi, non vive con noi, non la pensa come noi, non crede in quel che crediamo noi.

Il M5S e la Lega in Italia sono due facce, per nulla alternative, di questo fenomeno, due germogli velenosi di questa medesima radice. A qualificare profondamente la loro offerta politica non sono le singole proposte, che sono del resto fungibili, revocabili, riadattabili a misura dell’interesse che devono servire, ma è proprio l’idea che la democrazia elevi il consenso da forma di legittimazione del potere a vero e proprio sistema di surrogazione della realtà.

Questo rende possibile anche l’incredibile, cioè che i fatti più disconosciuti e maledetti, siano quelli meno dubbi e più sicuri: che si parli di statistiche della criminalità, di dinamiche demografiche, di andamento dei conti pubblici o di occupazione, la discussione dei fatti è scavalcata da un’imputazione di colpa per chi se ne serve. Non è vero che in Italia c’è un’invasione, ma un problema di spopolamento? I migranti se li prenda a casa Bergoglio! Non è vero che si può far crescere il deficit senza costi per l’economia reale e per i bilanci delle famiglie? Lo dice chi sta nei centri storici, mentre la gente soffre la fame! E così via.

Ovviamente, non esiste una razionalità politica meramente “oggettiva”. Non esiste un’unica soluzione politica per i problemi che la convivenza umana presenta. Le idee politiche contengono valori, oltre che interessi e lo stesso riconoscimento di interessi legittimi è un’operazione culturale e “valoriale”. Non si può governare solo con l’aritmetica, ma non si può governare a prescindere dall’aritmetica e da un’analisi razionale del rapporto tra le cause e le conseguenze delle scelte che si propongono. Il fatto che in Italia e in molti luoghi dell’Occidente collassino insieme la fiducia nello stato di diritto e quello nella razionalità politica non è casuale, perché dal punto di vista storico sono intimamente correlati. E non è casuale che tutti i totalitarismi, anche quelli teoricamente suffragati dal favore della maggioranza della popolazione, abbiano bisogno, orwellianamente, di mettere in dubbio che due più due faccia quattro.

Qualunque ragionamento sul futuro della politica italiana dopo il (definitivo?) stop del governo gialloverde non può eludere questo problema. Illudersi che l’irrazionalità al potere faccia meno paura con la faccia di Di Maio, Conte o Di Battista piuttosto che con quella di Salvini sarebbe un grave errore. Pensare che riportare al centro il tema della fiducia nel sapere e nella responsabilità politica di eletti e elettori sia una partita persa significa condannarsi a continuare a perderla.

@carmelopalma