Il '68 e la pedofilia. La verità parallela di Ratzinger sulle colpe della Chiesa
Istituzioni ed economia
La questione pedofilia, dentro e fuori dalla Chiesa, è la storia della reazione sociale e culturale agli abusi sessuali verso minori impuberi, non la storia di una sindrome che non è una affezione morale, ma un disturbo psichico. Il ’68 non può avere causato la pedofilia né dentro e fuori dalla Chiesa, più di quanto possa avere causato qualunque altra malattia mentale.
Invece, il ’68, l’evoluzione del costume civile e il riconoscimento dell’immagine sociale e dei diritti propri dei minori, che è storicamente contestuale all’evoluzione del diritto di famiglia e al superamento della famiglia “tradizionale” (dove mogli e figli erano semplicemente cose viventi di proprietà del capofamiglia) ha favorito l’emersione di un fenomeno che comprensibilmente allignava e veniva occultato proprio in istituzioni chiuse, nascoste agli occhi del mondo.
La pubblicizzazione e laicizzazione del desiderio sessuale (compreso quello dei minori) e la sua emancipazione dalla morbosità a un tempo sessuofobica e sessuomanica delle morali repressive, che Ratzinger mette al centro della propria accusa, è stato decisivo per rendere apprezzabili e comprensibili i confini tra la libertà e la perversione sessuale, legata a pensieri d’odio, di violenza e sopraffazione. Gli abusi sessuali hanno iniziato a essere percepiti come veri “abusi” quando la sessualità edonistica ha cessato di essere percepita come intrinsecamente malvagia.
È ovvio che in un mondo in cui ai minori non veniva riconosciuta giuridicamente e culturalmente la dignità di persone, ai minori chiunque potesse fare di tutto, secondo le proprie inclinazioni e necessità, anche le più patologiche e malate. I bambini potevano essere fatti lavorare come bestie, picchiati brutalmente, alienati dalla vita di relazione e anche abusati sessualmente, proprio perché non erano considerati a tutti gli effetti soggetti di diritto e i responsabili dei comportamenti e delle sevizie più violente dovevano per principio essere difesi da un’istituzione – fosse la Chiesa, la scuola, la famiglia – che in questo modo difendeva se stessa e la propria rispettabilità.
Come c’è voluto uno scarto culturale perché la violenza sessuale cessasse di essere un reato contro la morale pubblica e familiare per diventare un reato contro la persona, è stato necessario che i bambini diventassero persone perché fossero riconosciute come vittime meritevoli di tutela. Nel mondo pre-contemporaneo gli abusi verso i minori suscitavano, al più, vergogna per l’adulto disturbato, non orrore per il bambino seviziato.
Da questo punto di vista quello che con espressione generica si può chiamare il ’68, inteso in senso civile (cioè il femminismo e la dimensione sessuale personale vissuta come sfida di libertà) ha certo messo in crisi, ma provvidenzialmente, le istituzioni tradizionali (a partire proprio dalla Chiesa e dalla famiglia), ma ha anche delegittimato la pretesa della loro separatezza e immunità dagli occhi indiscreti della società secolare. Solo dopo il ’68, non prima, gli abusi verso i minori hanno cessato di essere una vergogna, da sopportare con pazienza e da negare anche di fronte a qualunque evidenza, per diventare uno scandalo civile insostenibile. Dopo, solo dopo, anche la Chiesa è stata costretta a fare i conti con la propria “colpa”, che invece Ratzinger rimuove e preferisce surrogare con una verità parallela e alternativa: non era la Chiesa, come tutta la società, a non comprendere la propria responsabilità verso i bambini, era la società ad averla corrotta.
@carmelopalma