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Fu proprio la destra liberale, la prima a vocazione maggioritaria nell'Italia repubblicana e cioè quella primo-berlusconiana, a "sdoganare" – come si disse allora – i post-missini reduci dalla svolta di Fiuggi (il doppio congresso che ufficializzò, almeno teoricamente, la normalizzazione dei conservatori italiani, che nonostante tutto non avevano estromesso né Mussolini né pensatori come Julius Evola dal loro pantheon intellettuale).

Poco più di settant'anni prima Giovanni Giolitti – liberale, ça va sans dire, per quanto il significato pre-moderno di tale qualifica possa distanziarsi da quello odierno – consacrò l'ascesa dei fascisti, allora nemmeno strutturatisi in un partito, includendoli nel Blocco Nazionale e votando la fiducia a Mussolini nel '22.

Ambedue i leader agirono, pur in circostanze diversissime, obbedendo a esigenze di natura strategica: agli albori della stagione maggioritaria Berlusconi aveva interesse a che il Polo fosse quanto più inclusivo possibile; Giolitti, assieme alla grande borghesia agraria e industriale, si illuse di poter strumentalizzare il movimento fascista in funzione antisocialista – per poi magari neutralizzarne le pulsioni più antidemocratiche una volta placatasi la febbre rivoluzionaria.

Ma anche una scelta strategica sottende (almeno) un minimo di affinità elettiva: sarebbe stato più naturale, per Giolitti e più generalmente per l'alta borghesia, trovare una sponda nel Partito Popolare (il celebre appello ai Liberi e Forti, lo si ricorderà, è un manifesto di antistatalismo, individualismo, stato minimo, solidarismo cattolico che negli anni '80 avrebbe ispirato, indirettamente, persino Margaret Thatcher), che venne invece squalificato come avamposto di "bolscevismo bianco"; la corrispondenza di amorosi sensi fra Berlusconi e Fini, si ricorderà anche questo, trascendeva il mero opportunismo politico-elettorale – perlomeno così fu sino al 2010, anno del litigio definitivo.

E non è un caso se tanto a Berlusconi quanto, pochi giorni fa, al suo ennesimo delfino – Antonio Tajani, anch'egli orgoglioso di fregiarsi del titolo di liberale – è capitato d'inciampare sul solito luogo comune da anziano nostalgico: Mussolini-fece-anche-cose-buone.

Eppure la tradizione liberale e quella fascista sono quanto di più antitetico possa esserci, perciò l'ansia revisionista degli alfieri della prima risulta inspiegabile – specie se a manifestarla è, come nel caso in questione, il Presidente del Parlamento Europeo in carica. Il fascismo, pur nella sua effervescenza ideologica, fu fra le tante altre cose fermamente anti-individualista, dirigista, plebiscitarista: in una parola, antiliberale.

La nozione di "liberalismo" ha subito, col passare del tempo, numerosissime torsioni concettuali, come la stragrande maggioranza delle dottrine elaborate nei secoli XIX e XX. Ma se sul piano economico e sociale il concetto è stato stiracchiato sino a collassare – Keynes pretendeva che le sue ricette economiche venissero ritenute liberali; in America i "liberals" sono, secondo l’appropriatissima definizione di Giovanni Sartori, "i socialisti di un Paese senza socialismo" –, il costituzionalismo resta, in termini politico-giuridici, il fortilizio teorico al di fuori del quale la dottrina liberale smette di essere tale: Mussolini, come ogni dittatore, assolutizzò "la volontà generale" e umiliò le minoranze e l'individuo. Tanto dovrebbe bastare a escludere qualsiasi forma di sincretismo tra tradizioni così diverse.

La fede antifascista di un liberale autentico dovrebbe essere solida tanto quanto quella anticomunista, ma in Italia – e di tanto in tanto anche altrove: basti pensare che inizialmente Churchill simpatizzava per Mussolini, esista o meno il leggendario carteggio fra i due per certificarlo – i punti di convergenza fra conservatorismo liberale e, per l'appunto, fascismo, fanno tendenzialmente premio sui (ben più numerosi e significativi) punti di divergenza. Come se i liberali provassero attrazione per i propri (passati o, a seconda delle circostanze, aspiranti) carcerieri.