L'Italia non è la Francia, e Di Maio non è Macron
Istituzioni ed economia
Alla responsabilità generazionale, all’iniquità della scelta di comprare benessere per l’oggi accollandone il costo sulle generazioni future attraverso il debito, su queste pagine abbiamo dedicato un’intera monografia: “liberare le giovani e le future generazioni dal peso della nostra irresponsabilità generazionale è una questione di pulizia del dibattito politico, oltre che di moralità civica e repubblicana”.
Questo per chiarire che l’idea di finanziare un imponente sgravio fiscale in deficit, come titolano oggi i giornali riferendosi alla manovra economica presentata in Francia da Macron, non troverebbe da queste parti reazioni improntate all’entusiasmo, anzi.
Quello entusiasta invece è il vicepremier Di Maio, che in un post su Facebook corredato di emoticon da bimbominkia, ha colto la palla al balzo per dire che lui vuole fare come la Francia, perché anche l’Italia è uno Stato sovrano, e se la Francia lo fa vuol dire che i soldi ci sono. Ma certamente.
Ma se si va oltre il sensazionalismo dei titoli, si comprendono le vere ragioni dell’aumento del deficit al 2,8% nel 2019. Così il Sole24Ore:
La manovra francese, piuttosto complessa, comporterà un aumento del deficit complessivo che raggiungerà il 2,8% del pil, dal 2,6% del 2018 e il 2,7% del 2017. È un incremento che però riflette il semplice slittamento temporale di alcune uscite ed entrate. La Francia ha trasformato il credito di imposta per la competitività e l’impiego (il Cice) in uno sgravio fiscale pieno: nel 2019 si ridurranno così alcune entrate mentre per l’ultima volta si avrà ilrimborso dei crediti di imposta del 2018. Allo stesso modo, l’introduzione della ritenuta alla fonte farà slittare di un mese alcune entrate. L’effetto complessivo è pari a 0,9 punti di pil: escludendo questi effetti temporanei, il deficit 2019 sarebbe risultato pari all’1,9%.
E infatti il deficit francese è previsto in calo all’1,4% già nel 2020, e allo 0,3% nel 2022. Una cosa un po’ diversa da un grande piano di riduzione delle tasse finanziato in deficit, sul modello di quello di Trump. Facciamo come la Francia, Luigino? Magari.
E comunque, fare nuovo debito in Italia o in Francia non è esattamente la stessa cosa: il rapporto debito/Pil italiano è del 133%, quello francese del 98%; in Italia il Pil nominale cresce del 2,8%, in Francia del 4%; la Francia paga lo 0,83% di interessi sul debito a 10 anni, l’Italia il 3%. Tra l’Italia e la Francia c’è la differenza che passa tra un’azienda sana e un’azienda troppo indebitata. E il vicepresidente del consiglio che vuole “fare come la Francia” è come un imprenditore prossimo al fallimento che si lamenta perché in banca non gli fanno le stesse condizioni che fanno ad altri. Farsi una domanda, darsi una risposta.
In realtà quello che Di Maio sa bene è che non c’è davvero nessuno che possa impedire al suo governo di fare un deficit del 2,8, del 3,8 o del 4,8 percento. Nemmeno l’Europa o la kattivissima Merkel. L’Italia è davvero uno Stato sovrano, come continua a rivendicare il nostro vicepremier in orbace, ed è davvero padrone delle sue politiche di bilancio. Il problema di Di Maio non sono le macchinose procedure di infrazione per deficit eccessivo a cui andrebbe incontro se decidesse di sforare le soglie previste dai trattati, procedure che non hanno mai spaventato nessuno, e che oggi infatti non spaventano la Francia.
Il problema di Di Maio è che dopo un minuto il governo non troverebbe più nessuno disposto a rifinanziare il nostro debito, acquistando titoli di Stato ai tassi attuali, già alti, e l’Italia si ritroverebbe su un piano inclinato e non più raddrizzabile che la spedirebbe dritta alla bancarotta. E questo anche se dall’Europa - per qualche miracolo - ricevesse il lasciapassare formale per tutte le sue follie. Avrebbe trovato i soldi per pagare il reddito di cittadinanza, forse, ma non troverebbe più un euro per pagare i fornitori, gli stipendi e le pensioni. Che affarone.
A proposito, la manovra di Macron prevede un taglio di 4000 posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione. Facciamo come la Francia, Luigino?