Zotti Vendetta

C’è una parte della sinistra che si sente scavalcata dal M5S. Dopo aver fornito l’arsenale degli argomenti anti-europei, vagheggiando “un’altra Europa possibile”, dopo aver accusato la Germania di derubarci del nostro ruolo, dopo aver alimentato il sovranismo (ovvero il nazionalismo) e le teorie cospirative della finanza, scopre con sorpresa di essere stata sorpassata dai populisti, che magari aveva creduto di cavalcare.

Aveva apprestato la ghigliottina per l’”establishment liberista e mondialista” ma, con il successo dell’antipolitica, si sta accorgendo di aver fatto la fine di Robespierre.

Ma non c’è solo la sinistra dell’antipolitica e anti-establishment, che vive di cospirazioni. La strada al populismo anti establishment è stata spianata, in Italia, dallo stesso establishment. Attaccare l’Europa (è “tutta colpa dell’Europa”, della Merkel ecc.) è anti-politica trasportata fuori dei confini nazionali. Giusto qualche giorno fa, Romano Prodi, parlando a Mestre, ha sostenuto che, se il M5S e la Lega sono al governo, è colpa della Germania. Si è anche lamentato per la vignetta apparsa su Der Spiegel, come se “i tedeschi” o il governo tedesco fossero responsabili di una vignetta.

Dichiarazioni che sono sull’onda del populismo (peraltro stupisce che ci si possa lamentare per delle vignette dopo quello che è accaduto a Parigi). In tutto ciò, sono dieci anni che l’Italia è stata attraversata da un’ondata di indottrinamento anti-tedesco e anti-europeo. Ma il populismo trionfate anti-establishment ha avuto inizio dentro l’establishment - di centro, di destra, di sinistra - che gli ha spianato la strada per esserne poi travolto.

Anche la storia ufficiale dell'Italia nell’euro, quella che si ritrova nel grandi e nei piccoli giornali, salvo poche eccezioni, è intrinsecamente populista e antisistema. È una storia di vittimismo che dimentica i fatti, che considera i patti e i trattati come carta straccia. Non si ricorda che il paese ha fatto carte false (letteralmente) per far parte dell’euro (voluto dalla Francia per assorbire la stabilità della Germania); e che, una volta dentro, si è messo però comodo, per continuare a essere uguale a se stesso.

Risuona spesso un linguaggio da Ventennio. I patti di stabilità vengono offerti all’opinione pubblica come dolorose umiliazioni inferte al nostro paese, un torto che abbiamo subito a vantaggio degli interessi di altri. È falso. I patti sono necessari, per l’evidente ragione che l'euro permette sia un percorso che l'altro: permette che la forza economica e la stabilità della Germania e dell’Europa del Nord si trasferiscano in certa misura all'Italia; ma permette anche il percorso opposto: che l'instabilità, l'inefficienza, si trasferiscano sugli altri paesi. A nessuno conviene, neanche all’Italia, che ogni paese possa sforare le regole a piacimento.

L'Italia si è impegnata, ha promesso, giurato: per carità, faccio le riforme, divento efficiente, non lascio al solito esercito di termiti di divorare le risorse pubbliche, non spartisco per famiglie e partiti. Tutto è andato avanti invece come sempre: università, scuola, tasse, welfare, giustizia, mafie, evasione, familismo e occupazione dei partiti. La crescita (il vero problema italiano) non si è vista. Mentre il debito, l’unica risorsa di chi non cresce, giganteggia e incombe. La risposta alla crisi è stata - di nuovo populisticamente - trovare un nemico esterno, immaginare complotti della finanza, dello spread. Al tempo stesso, però, si è venduta al paese l’idea che gli altri paesi europei (quelli che però avrebbero complottato) si dovessero far carico per “solidarietà” del nostro debito.

La crescita economica avrebbe bisogno di tutt’altro: di meritocrazia, di libertà liberale, di una società civile forte e autonoma. Ma il racconto prevalente è stato anche qui in stile antisistema, anti-politico: colpa dei trattati anti-italiani, colpa dell’establishment di Bruxelles, delle banche, delle istituzioni finanziarie. Non stupisce che questa narrativa abbia preparato il populismo: lo conteneva già dentro di sé.

Un altro capitolo del populismo è la lotta alla corruzione. Anche qui la strada è stata preparata da un’idea non liberale che vede nella corruzione l’esito naturale dell’economia di mercato. È un’idea non liberale che riguarda tanto l’origine della corruzione italiana che i metodi di contrasto. Il garantismo, naturalmente, è l’ostacolo alla rivoluzione purificatrice. Non è difficile trovare quintali di citazioni. Luciano Canfora sentenziava su MicroMega: “L’idea secondo cui tutto è lecito, in quanto contrattato con tangenti, fa parte del nucleo genetico di questa cultura, rigorosamente liberale sul piano filosofico” (La vita immobile, MicroMega, 1/94 p.221). Sorprende leggere queste cose, ma sono la chiave del declino sia economico che politico del paese. È il populismo che parla a voce alta, libero dai suoi custodi.

Del tutto opposta è, neanche a dirlo, l’idea liberale della corruzione, che è assenza di mercato, familismo, controllo partitico, società chiusa. Altro che neoliberismo o “rigore liberale sul piano filosofico”: l’esatto contrario! Alla fine, il populismo ha battuto in breccia le posizioni già in partenza antisistema perché debolmente liberali e intrinsecamente populiste.

Un tempo Pannella indicava nella partitocrazia il male italiano. La sua non era anti-politica, perché, anche se può sembrare strano, partitocrazia e anti-politica sono due facce della stessa realtà. La debolezza della società civile soffocata dai partiti è infatti ciò che genera la risposta populista. Il populismo, insomma, è sempre stato tra noi: è la storica debolezza della società civile italiana, la cui servitù è stata comprata con il debito pubblico. La crescita economica, in questo contesto, non era possibile. La crescita presuppone la libertà e l’autonomia della società civile.

Non dobbiamo meravigliarci dunque se i grillini credono davvero che la loro sia una rivoluzione contro i partiti. Ma la frustrazione di intere generazioni ha reso il Paese fragile e lo ha esposto agli interessi anti-europei e alla loro propaganda. Il Paese della partitocrazia era vulnerabile, era il punto debole dell’Unione Europea.

Finita la stagione dei partiti, scesa la marea, è emersa una società che urla e che esige che qualcuno si prenda cura di lei e dei suoi bisogni. Poiché si sente abbandonata, essa stessa, come ha significativamente detto Luigi Di Maio, si è fatta Stato. In mancanza di sussidi, ha pensato di sussidiarsi da sola, per continuare a non essere una società civile. Di responsabilità neanche a parlarne, essa non esprime del resto neanche una classe dirigente; persino il Presidente del consiglio è irreale.

Ha paura di tutto, a partire dagli stranieri. Sull’immigrazione è in sintonia con i paesi dell’Est: la sua, del resto, è la stessa debolezza, che, su altra scala, si è vista con la fine del comunismo: ritiratosi il partito unico, è emersa una società civile debole, razzista, chiusa. Sempre da tenere a mente Piero Gobetti: “il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia”.

Ora è forte la tentazione per certa sinistra di recuperare il vecchio e rassicurante terreno dello scontro tra “i valori della sinistra” contro “le destre”, magari tentando di staccare il M5S dalla Lega, e fare populismo, ma, con orrenda espressione che rivela tutto, “da sinistra”. La novità è che il vecchio e noto terreno dello scontro tra “il valori della sinistra” e “le destre” non sembra più recuperabile. L’asse politico mondiale si sta spostando (vedi, da ultimo, Trump al G7) e sta tornando, drammaticamente, ai fondamentali: a un confronto tra la visione liberale e quella antiliberale, tra globalisti e sovranisti, tra società aperta e autoritarismo.

Adesso, dovendo scegliere tra l’inattualità e lo schiacciamento sul populismo sovranista, la sinistra antisistema e salvifica dovrebbe decidere di essere il contrario di se stessa: dovrebbe essere globalista, mondialista, disincantata, progressista; dovrebbe rinunciare dolorosamente ai complotti della finanza e credere nella competitività, nella creatività, nella crescita; dovrebbe dire che la ricchezza è la premessa della redistribuzione e credere nelle libertà economiche, senza plaudire ai miti sovranisti, alla decrescita, all’uomo antiquato e al “dominio della tecnica” e che tanto è colpa della Merkel. Dovrebbe credere nella scienza, anche in quella economica, e non solo nella scienza che conferma “la sinistra”.

Tuttavia, in questo mondo che sembra cambiare, i radicalismi di destra e di sinistra si scoprono (di nuovo) irresistibilmente uniti contro i “liberisti”, e sfociano nel populismo, che hanno dentro e che però li dissolve. Perché la rivoluzione dell’antipolitica non è la rivoluzione liberale.