Giuliano Ferrara ieri ha puntato sui radicali. Sono loro gli originari e autentici populisti. Ci tiene peró a presentarsi da bon vivant. A non apparire maldestramente liquidatorio.

Abbiamo così un “miei cari” (tre volte ripetuto, ad altrettante personalità radicali); e poi un “amatissima” (Cesaretti) un “supergrafico stylish” (Loquenzi) e un “eloquente e sonnolento” (Della Vedova: e qui la voluta similconversevole comincia a perdere quota), che si aggiungono ad articolare, per ciascuno, il comune “miei cari”.
“Frasche e fiori”, le avrebbe definite Francesco De Sanctis.

E anche se scrive: “la vena antipolitica è una tipica risorsa italiana”, ed è passata “un po’ da tutte le parti”, parendo ribadire una volontà equanime, è già salito, con l’usata lieve grevità, sul pulpito della mistificazione: tutte le parti, sì, “tranne le mie”.
“Le mie parti” sono stentoreamente arricchite, all’esordio, di “...miei novissimi alleati strategici Di Maio, Buonafede e Toninelli...”.

Scritto latinamente o toscanamente, “novissimi”. Gli studi ci sono, ed è bene farlo notare: perché, a-vangelicamente, sempre sappia la destra quello che fa la sinistra, non si sa mai: per una schiatta basculante come quella italiana, il tesoro retorico è l’unica certezza.

Ora, anche per chi radicale non è (ma molti amici e molte simpatie: Sciascia, a parte), questa risoluzione del radicale nel populista, in nome dei “novissimi”, risulta intellettualmente sgraziata. Ed infatti, è solo malagrazia intellettuale quella che dispettosamente annota: “il referendum pannelliano...contro il finanziamento pubblico dei partiti”, “il sistema dei partiti bollato di consociativismo e condannato in blocco come cupola partitocratica”.

Il trucco -perché solo un trucco qui abbiamo di fronte- non risiede nella falsità storica: giacchè quelle posizioni politiche furono di Pannella e dei radicali; ma nel pretermettere che la critica, anche quella fuori dai denti, si distingue dal basso profondo sanculotto, per una ragione semplicissima: che la critica è tale quando è voce di minoranza, e quando con la sua chiassosa e volenterosa ugola supplisce all’isolamento; ed invece il vecchio arnese tirannico, la turba, si manifesta e si concreta nel mettere capo alla gozzoviglia moltitudinaria; e urla per conquistare, per acquisire un potere diretto e reale e, una volta acquisito lo status istituzionale, per intimidire, finire, chi tenta di sottrarre la cosa pubblica all’ebbrezza devastatrice.

Ecco perché tracciare genealogie fra il “caro buon Pannella sempre rimpianto”, e i “novissimi”, è azione culturale di scarsissima lena analitica: in nulla rinvigorita, e anzi peggiorata, dal reiterare una maniera zuccherosa di travisare fatti, storie e perduranti posizioni politiche.

Ma non basta. I radicali, Pannella, “tutti i suoi allievi, cattivi allievi di lui buon maestro”, sarebbero il nesso fra il movimento dell’Uomo Qualunque e Grillo: “Grillo arrivò buon ultimo, tra Giannini qualunquista e lui c’era stato Marco il fustigatore del sistema della politica”. Nesso diretto e non ulteriormente precisato. Di Pannella personalmente, che voleva due secondi prima “buon maestro”.

E qui, dallo zucchero spilla veleno. Infatti, costoro non sarebbero dei generici populisti: ma, dunque, assommerebbero i nostalgismi dell’immediato post-fascismo, e i ridestati futurismi mutilatori di quello che Sciascia definiva “l’eterno fascismo italiano”: proprio quello dei “novissimi”. S’intende che Ferrara, mentre così amabilmente qualifica i “miei cari”, però, di essere diventato lui un fior di populista, come sempre è stato Grillo (benché, ormai, promosso ad ex “Gribbles”), lo negherebbe, con qualche parolaccia autorevolmente sterile delle sue.

Lui vota SÍ. E va bene. Ma lo fa, perché “la prendano in saccoccia”, quanti, sostenendo il NO, nientemeno sarebbero, essi, i continuatori “di Pancho Pardi”, “di Libertà e Giustizia”, di “Tonino Di Pietro”, “dei Prodi e dei D’Alema”, “del ceto medio riflessivo, tutti progenitori antipolitici del “no”.

Avete letto bene: Ferrara, in compagnia di Bonafede applaude la “prescrizione mai”, e poi dà del Pancho Pardi al NO; è insieme al Davigo, mentore spirituale del primo, ma dà del Di Pietro al NO; va a braccetto con Di Maio, che già annuncia vincolo di mandato, e indennità a misura di insignificanza parlamentare dopo “il taglio”, e dà di “Libertà e Giustizia” al NO; sta con Zingaretti “l’URSS ha fatto anche cose buone” e dà del “Dalema” al NO; cantò il “tienimi-da-conto-Monti”, e immagina tremebondo incombenti “accozzaglie supertecniche” (ghigno perifrastico per non dire esplicitamente “Draghi”: hai visto mai); si aggiusta strategicamente (peró!) ai “Vaffa-day”, e riferisce al NO “i girotondi vocianti”. Soprattutto, pur sonnacchiosamente reticente, marcia fianco a fianco di Meloni e Salvini, perché, tutti insieme, “riformatori della Costituzione, festeggeremo il primo passo da molti anni,” ma ci tiene a sciorinare: “Dio ne guardi”.

E nulla qui diciamo di quello che hanno fatto i “padri spirituali” dei “novissimi” a Craxi e Berlusconi, che pure qualcosa per Ferrara si può supporre abbiano significato. Proprio quel “ceto medio riflessivo”, che, assicura, ulteriormente svilirebbe le fila del NO.

Meno male che chiude come mangia, secondo la vena che fu: “tiè”. Così, almeno, l’incredulo lettore, dopo tanto panneggio, potrà agevolmente districarsi dall’ultimo trucco di una spensierata affabulazione.

Leggendo della “della buona società guicciardiniana”, dove i fiorentini “praticavano il particulare di una rassegnazione politica snob all’antipolitica”, non tema di non capire. Al Nostro è scappato di guardarsi allo specchio. E mentre si stringeva alla “dittatura politico-sanitaria di un modesto ma efficace governo”, ha visto uno snob politicienne, rassegnato all’antipolitica. E si è malaugurato da solo.