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Dopo il “passo avanti” delle forze armate di mercoledì scorso, il comitato centrale della Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (ZANU-PF) ha rimosso dalla guida del partito il presidente-dittatore Robert Mugabe. Le dimissioni – forzate - di Mugabe dalla presidenza del paese o l'impeachment sembrano ormai, a questo punto, questione di ore. Finisce così un’era politica cominciata 37 anni anni fa.

Nello Zimbabwe di oggi resta ben poco di quel “gioiello dell’Africa” ereditato da Mugabe a causa dell’improvvido intervento britannico che smontò l’"accordo interno" realizzato tra la vecchia leadership bianca e i leader neri moderati. Lo Zimbabwe che il presidente uscente consegnerà al suo successore non è nemmeno una pallida immagine della vitalità economica e delle potenzialità di un tempo.

Mugabe è stato una sventura per il suo paese. E’ stato un dittatore, anche se in pochi sono stati disposti a comprenderlo fin dal principio. Egli arrivò al potere con una reputazione da rigido comunista; eppure malgrado la sua aperta adesione ideologica ai principi del marxismo-leninismo, furono in tanti, a ritenere che, una volta al governo, le ragioni della politica gli avrebbero imposto una “normalizzazione” necessaria a portare avanti con efficienza l’economia.

Peraltro le scelte politiche dei primissimi anni sembravano effettivamente improntate ad un atteggiamento di realismo e di apertura. Nel suo primo governo Mugabe incluse il rivale Joshua Nkomo come suo vice e, in qualità di indipendenti, due ministri provenienti dalle file del vecchio governo bianco.
 La sensazione, tuttavia, è che il leader dello ZANU-PF non sia mai stato intimamente convinto della giustezza di un approccio moderato ed inclusivo, ma semplicemente che abbia voluto rinviare l’assunzione di posizioni più radicali e più conflittuali al momento in cui ritenesse di avere sistemato i suoi uomini in tutte le posizioni strategiche dell’esercito e della burocrazia. Aveva studiato bene la lezione cilena ed era determinato ad evitare gli errori fatali commessi da Allende.

Non appena si sentì abbastanza forte, cominciò a premere l’acceleratore verso l’autocrazia. 
In una prima fase, tuttavia, non furono i bianchi il suo principale bersaglio – troppo pochi per rappresentare un vero pericolo per il suo potere. I primi nemici furono Joshua Nkomo, che fu espulso dal governo, e il suo partito che aveva la propria base elettorale soprattutto nella regione del Matabeleland. Mugabe avviò una campagna di repressione contro la dissidenza del Matabelaland che, secondo alcune valutazioni, potrebbe aver provocato 20.000 morti. Fatti di violenza inaudita, ma che sul piano internazionale passarono in gran parte sotto silenzio, perché si era in anni in cui l’Occidente preferiva riconoscere a Mugabe un ampio credito – e in cui la priorità della politica internazionale, in quella parte del mondo, era il contrasto dell’apartheid sudafricano. 

Nel tempo il potere di Mugabe si è consolidato sempre di più. Il 1987 rappresentò uno snodo cruciale nella sua strategia assolutista.
 Nkomo, in chiara posizione di inferiorità, venne indotto ad accettare l’assorbimento del suo partito all’interno della ZANU-PF. Inoltre vennero aboliti i seggi riservati alla minoranza bianca – annullando così la residua rilevanza politica della Conservative Alliance of Zimbabwe dell’ex primo ministro Ian Smith. L’obiettivo dichiarato era la creazione di uno Stato socialista a partito unico, un progetto che però fu guastato dagli eventi dell’89 – dalla caduta del comunismo e dall’inizio della transizione di molti paesi africani verso il multipartitismo.

Se il modello della dittatura filsovietica non era più perseguibile, Mugabe non ebbe alcuna difficoltà ad adattarsi al nuovo contesto. In fondo, non era poi un problema se delle opposizioni si presentavano alle elezioni e se magari riuscivano anche a raccogliere uno o due seggi in parlamento: il mantenimento di un simulacro di democrazia serviva ottimamente alle esigenze della propaganda.

Il potere di Mugabe era solido, così come nell’immaginario di molti lo era ancora la sua immagine da “liberatore”. L’opposizione era debole, divisa ed in gran parte legata a figure, come Abel Muzorewa e Ndabaningi Sithole, troppo facilmente accusabili di connivenza con il passato rhodesiano in virtù della loro partecipazione all’”accordo interno”. Il primo tentativo di costituire un’alternativa politica rinnovata fu il Forum Party of Zimbabwe, un movimento politico culturalmente di alto profilo, composto da liberal e attivisti per i diritti umani, sia bianchi che neri. L’iniziativa non ebbe fortuna ed alle elezioni del 1995 non ottenne nemmeno un seggio.

E’ nella seconda metà degli anni ’90 che i nodi del dirigismo, della corruzione e del malgoverno cominciarono a venire al pettine. L’economia dello Zimbabwe entrava in crisi e cominciava ad emergere un diffuso malcontento.
 Per mantenere la sua presa sul paese, Robert Mugabe aveva bisogno di un nemico e lo individuò nella minoranza bianca. Era colpa di essa e del suo atteggiamento ancora “coloniale” se il paese era in crisi. Il presidente promise che avrebbe “tolto la terra ai bianchi” per “restituirla al popolo”. L’obiettivo era l’”indigenizzazione” delle fattorie commerciali - in larghissima parte nelle mani di cittadini bianchi – che rappresentavano gran parte dell’economia del paese. 

Era un pretesto. Allo Stato non mancava la terra, anche perché molti farmer bianchi l’avevano già venduta volontariamente, ma fino a quel momento il governo l’aveva, in gran parte, solo rovinata. Mugabe aveva bisogno di un cambiamento costituzionale per superare le obiezioni della Corte Suprema e poter procedere con espropri forzati. Fece redigere una nuova costituzione da approvarsi tramite referendum. La consultazione, svoltasi, nel 1999 produsse un esito clamoroso. Con grossa sorpresa del governo, il popolo votò a maggioranza contro.

Sulla scia del referendum, si consolidò nel 2000 la prima vera sfida al dominio politico dello ZANU-PF. Alle elezioni parlamentari si presentò un nuovo partito di opposizione, il Movement for Democratic Change (MDC), guidato da Morgan Tsvangirai, con un programma a sostegno del modello democratico occidentale e dell’economia di mercato. Il MDC ottenne un risultato straordinario e solo in virtù delle intimidazioni e dei brogli non riuscì a conseguire la maggioranza dei seggi. Stravinse nelle città, in particolare Harare e Bulawayo, dove le elezioni potevano essere condotte secondo standard decorosi, ma perse nelle zone rurali dove le pressioni e le manipolazioni dei militanti del partito di governo non potevano in alcun modo essere frenate. 

Se fino a gran parte degli anni ’90 Robert Mugabe poté probabilmente contare su un consenso effettivo, ci sono pochi dubbi che, a partire dal referendum del 1999, egli abbia governato – per altri 18 anni – contro la volontà della maggioranza della sua popolazione.

Dopo le elezioni del 2000, Mugabe portò a termine la sua vendetta contro la popolazione bianca, accusata di aver sostenuto l’opposizione democratica. I militanti dello ZANU-PF invasero illegalmente le fattorie commerciali, cacciando con violenza i proprietari e compiendo omicidi e stupri. Per Robert Mugabe solo un ostacolo ormai rimaneva sulla strada del potere assoluto – la presenza di una Corte Suprema indipendente che si rifiutava di avallare gli espropri violenti. Nel 2001 i militanti dello ZANU-PF invasero la sede della Corte Suprema mettendosi a ballare sui banchi. Il presidente della Corte Anthony Gubbay fu costretto a dimettersi e poco dopo dovette seguirlo anche l’ultimo giudice bianco, Nicholas McNullay. Le elezioni presidenziali del 2002 e le elezioni parlamentari del 2005 si svolsero in condizioni di praticabilità democratica molto limitata, ed il MDC, pur raggiungendo risultati considerevoli, non riusci a mettere in pericolo la posizione del presiedente.

Intanto le condizioni economiche del paese erano sprofondate. 
L’esproprio delle fattorie commerciali aveva distrutto la florida economia agricola dello Zimbabwe. Non erano stati solo i farmer a perdere tutto, ma anche tutti i loro dipendenti, dato che le fattorie erano la principale fonte di lavoro. In pochi anni la disoccupazione nel paese era arrivata a superare il 90%. Le terre espropriate erano state spartite tra militanti e quadri del partito e veterani della “guerra di liberazione” ed erano finite in gran parte in mano a persone senza alcuno skill specifico – andando così in genere per ospitare un’agricoltura di pura sussistenza.


Nel frattempo lo Zimbabwe era entrato in un drammatico scenario di iperinflazione che distrusse il valore di una moneta, il dollaro locale, che fino agli anni ’80 era rimasta sostanzialmente stabile. L’inflazione arrivò al 500% del 2005, al 1.200% del 2006, al 66.000 per cento nel 2007, per poi arrivare ad 80 miliardi per cento nel 2008, quando il Dollaro dello Zimbabwe venne sospeso.

Nel 2008 il Movement for Democratic Change si impose alle elezioni per il parlamento ed il suo leader Morgan Tsvangirai vinse il primo turno delle presidenziali. Secondo gli osservatori ottenne la maggioranza assoluta dei voti e quindi, direttamente, l’elezione a presidente; tuttavia la commissione elettorale dopo molti giorni di “verifiche” gli negò la maggioranza assoluta, imponendo un ballottaggio, dal quale Tsvangirai fu poi costretto a ritirarsi a causa dell’evidenza che Mugabe non avrebbe mai permesso che dal conteggio uscisse il risultato “sbagliato”.

Con un’economia ormai in ginocchio, dopo una complicata mediazione internazionale, Mugabe fu costretto ad accettare un governo di unità nazionale con la nomina di Tsvangirai come primo ministro. Si trattò, tuttavia, di una coabitazione squilibrata, in quanto il vecchio presidente riuscì a conservare tutte le principali leve del potere ed alla fine anche ad indebolire la credibilità dell’opposizione, al punto da vincere poi ampiamente le elezioni del 2013.

 Con il presidente ormai oltre i novant’anni, a questo punto era inevitabile che si aprisse la questione della successione. Pochi mesi fa la moglie Grace aveva detto che Mugabe avrebbe continuato ad essere presidente e a vincere le elezioni anche da morto.

Non sarà così. Il piano di far fuori il numero due del partito ed aprire la strada ad una presidenza di Grace - nel nome “sacro” del marito - è fallito. E così finisce il percorso politico dell’autocrate africano più longevo.

L’era di Mugabe è stata un mix letale di socialismo, nazionalismo nero, corruzione e clientelismo e la caduta del dittatore rappresenta oggi un elemento di speranza – certamente l’unica possibilità per il paese di avere un nuovo inizio. Al tempo stesso ci sono tante ragioni politiche ed economiche per le quali non è possibile farsi eccessive illusioni. Innanzitutto il cambio della guardia si sta producendo in virtù di dinamiche interne alla sistema costruito dal dittatore e quindi per mano di persone che con lui condividono la visione cinica e spietata del potere.

Anche se non si può del tutto escludere che la nuova leadership politica compia la scelta strategica di ricercare una più ampia legittimazione democratica, di base il futuro presidente Emmerson Mnangagwa è un protagonista intransigente e di prima linea della politica governativa degli ultimi 37 anni. L’opposizione democratica, dal canto suo, è più debole e divisa che in altri momenti e non facilitano le cose le scarse condizioni di salute di Morgan Tsvangirai, appena rientrato in fretta e furia dal Sudafrica, dove era stato sottoposto ad un’operazione.

Al di là di questo, il vero problema è che il tessuto economico e produttivo del paese è stato deteriorato al punto che oggi le basi da cui potrebbe ripartire paiono estremamente fragili; certo, la ex-Rhodesia ha un alto livello di alfabetismo ed ampie potenzialità in campo agricolo ma nemmeno il governo più volenteroso potrebbe oggi recuperare gli investimenti e le capacità tecniche, gestionali ed imprenditoriali che sono andati perduti con la distruzione deliberata delle fattorie commerciali. 
Sicuramente qualche indicazione in più la avremo dopo le prossime elezioni presidenziali, attualmente previste per il 2018.

La lunga notte dello Zimbabwe è durata 37 anni, ma è ancora presto per dire se per quella martoriata terra che va dallo Zambesi al Limpopo è giunto davvero il momento dell’alba.