rhodesia

Cinquanta anni fa, l'11 novembre 1965, il primo ministro Ian Douglas Smith dichiarava unilateralmente a Salisbury l'indipendenza della Rhodesia, rendendo il proprio paese il secondo nella Storia a ribellarsi all'autorità britannica, dopo gli Stati Uniti d'America. Oggi, però, l'11 novembre non è un “4 luglio”, non è un anniversario che possa essere festeggiato, se non altro poiché non esiste più la nazione che possa ricordarlo.

Una nazione è fatta di un vissuto comune, costituito da tante piccole e grandi esperienze e narrazioni condivise: Cecil Rhodes, l’epopea dei pionieri, Air Rhodesia e la costruzione delle ferrovie, il sacrificio di tanti giovani nella prima e nella seconda guerra mondiale, la mastodontica realizzazione della diga Kariba, ma anche le squadre di cricket e di rugby, il gran premio automobilistico di Bulawayo, l’elezione delle reginette di bellezza, le star della radio e della televisione rhodesiana, la letteratura locale, le canzoni popolari e quelle patriottiche, persino le particolarità lessicali e fonetiche. Tutto quello che costituisce memoria, identificazione e coscienza nazionale nel caso della Rhodesia è perso per sempre, se non per quello che può sopravvivere nella diaspora rhodesiana. 

L'indipendenza del paese ribelle è durata 14 anni, prima che i rapporti di forza politici e militari ne imponessero la capitolazione. Il 12 dicembre 1979 la Rhodesia tornava sotto l'amministrazione britannica che solo quattro mesi dopo consegnava il nuovo stato dello Zimbabwe al governo marxista-leninista di Robert Mugabe. Per molti dei suoi sostenitori, la Rhodesia ha rappresentato un presidio dei valori britannici ed occidentali in Africa, un’affermazione delle ragioni del nostro modello di civiltà in una fase storica in cui invece il mondo libero sembrava rassegnato ad un ripiegamento ideologico, una nazione costruita in pochi decenni dal nulla grazie all’intraprendenza, alla laboriosità ed al know-how, un “governo dei migliori” come alternativa alle degenerazioni oclocratiche del suffragio universale. D’altronde, per i suoi detrattori la Rhodesia altro non è stata se non un regime di bigotti e razzisti che per decenni hanno imposto la propria volontà discriminatrice a milioni di africani. La verità sta probabilmente nel mezzo.

I rhodesiani non credevano nell’apartheid teorizzato ed ingegnerizzato in Sudafrica dal National Party di Malan, Strydom e Verwoerd. In Rhodesia non c’erano leggi che impedissero, in via teorica, ad un cittadino di colore di essere primo ministro. C'erano deputati e senatori neri e fin dal 1965 il leader dell'opposizione parlamentare è stato un nero. Al tempo stesso, non si può negare che l'infrastruttura istituzionale era congegnata in modo da salvaguardare il sostanziale controllo della minoranza bianca sulla politica e sull'economia, pur in presenza di elementi di pluralità. 
Nei fatti il modello rhodesiano di “governo bianco” non seguiva le basi fortemente ideologiche che connotavano le politiche sudafricane a sud del Limpopo, ma piuttosto come idea guida aveva la preservazione pratica del “Rhodesian way of life”.

Sul piano strettamente pratico il modello rhodesiano funzionava bene. La popolazione bianca aveva uno dei tenori di vita più alti del mondo e la popolazione nera poteva comunque contare su condizioni di vita sensibilmente superiori agli altri paesi del continente.
La Rhodesia, fino al 1965 Rhodesia Meridionale, è stata, effettivamente, un esempio di buona amministrazione. Dotata di autogoverno interno dal 1923, rappresentava una delle poche vere “success story” del colonialismo britannico in Africa.

Nel 1953 la Rhodesia Meridionale era stata associata con la Rhodesia Settentrionale e con il Nyasaland nella Federazione dell'Africa Centrale. 
Alla dissoluzione della Federazione, avvenuta sotto la spinta dei nazionalisti neri della Rhodesia Settentrionale e del Nyasaland, questi due paesi furono avviati all'indipendenza con il nome di Zambia e di Malawi. Il fatto che la Gran Bretagna avesse deciso di riconoscere la piena sovranità a due paesi che non avevano alcuna esperienza passata di autogoverno, fece sorgere nella popolazione bianca della Rhodesia Meridionale la legittima aspirazione a vedersi anch'essa riconosciuta la propria indipendenza.

Il governo di Londra, tuttavia, si rifiutò di riconoscere l'indipendenza alla Rhodesia Meridionale, fino a che avesse mantenuto una forma di governo basata sulla minoranza bianca.
 Ora, l'accesso al suffragio in Rhodesia Meridionale non era su base razziale, ma era condizionato a requisiti di reddito e di istruzione che facevano sì che i bianchi rappresentassero oltre il 90 per cento dell'elettorato, pur costituendo solo una piccola minoranza della popolazione. Era evidente che questo equilibrio non avrebbe potuto modificarsi nel breve periodo, salvo radicali riforme nel senso del suffragio universale. Fu questa la base della crisi e della rottura tra Londra e Salisbury, che culminarono con la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza del 1965 e con le sanzioni internazionali che i britannici fecero imporre alla Rhodesia con l'obiettivo di forzare alla resa il governo di Ian Smith.

La Rhodesia per i primi anni riuscì a resistere egregiamente all'isolamento internazionale, continuando a crescere ad alti ritmi di sviluppo. Le cose, però, cambiarono nel corso degli anni '70 con l'emergere dei movimenti di guerriglia comunisti di Joshua Nkomo e di Robert Mugabe, che impegnarono il paese in un’opera di counterinsurgency molto costosa anche sul piano sociale, in virtù della leva obbligatoria per i cittadini bianchi di sesso maschile. 
Il vero spartiacque per la tenuta della Rhodesia fu la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo con i conseguenti sviluppi filo-sovietici in Mozambico. Dopo la perdita del vitale alleato portoghese, la posizione rhodesiana fu resa ancora più difficile dall'indebolimento della solidarietà sudafricana, forzata dalle pressioni di Kissinger su Vorster. Ian Smith comprese che non vi erano alternative ad una svolta e nel 1978 raggiunse un “accordo interno” con i leader dell'opposizione nera moderata, che condusse l'anno successivo alla prime elezioni a suffragio universale ed all'elezione di un presidente e di un primo ministro nero. A Londra non bastò ed il nuovo governo a maggioranza nera guidato da Abel Muzorewa fu costretto a restituire il controllo del paese al governatore britannico Lord Soames che officiò la presa del potere da parte di Mugabe.

Ian Smith, morto nel 2007, intitolò la propria biografia “The Great Betrayal” e per alcuni versi è vero che la Rhodesia è stata “tradita” dalla madre patria britannica e più in generale dal mondo occidentale. Quello che è certo è che ad un certo punto, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, l’Occidente ha operato una svolta ideologica repentina sulla questione del nazionalismo africano e più in generale sui rapporti razziali. Il passaggio che sancì il vero inizio della nuova era fu il clamoroso discorso “Wind of Change” pronunciato dal premier britannico Harold McMillan al parlamento sudafricano nel 1960, nel quale il governo di Londra annunciò la decisione di procedere alla decolonizzazione. In un lasso di tempo molto breve il Regno Unito passò dai valori imperiali e dalla filosofia dello “white man’s burden” alla teoria della liberazione africana e l’errore che è stato compiuto a Londra è ritenere che questo mutamento di sensibilità maturato nella madre patria potesse essere immediatamente applicabile su scala mondiale, in modo decontestualizzato rispetto alle dinamiche sociali, economiche e demografiche dei singoli paesi.

Da un giorno all’altro i rhodesiani erano passati da membri a pieno titolo dell’élite del Commonwealth, al pari dei canadesi o dei neozelandesi, ad impresentabili ed anacronistici razzisti; un sistema politico che un attimo prima era considerato assolutamente normale era divenuto un attimo dopo uno scandalo a cui era necessario porre il prima possibile rimedio. I britannici non compresero che il loro nuovo corso non poteva essere applicato allo stesso modo a paesi in cui la presenza occidentale si limitava a funzionari ed amministratori coloniali e ad un paese, come la Rhodesia, in cui invece generazioni di coloni avevano costituito una nazione occidentale ormai autoctona e che o si autogovernava da diversi decenni. La Gran Bretagna ha perseguito, nel caso rhodesiano, una politica di decolonizzazione forzata che non ha riconosciuto all’elemento di origine europea la dignità di interlocutore politico ed istituzionale. Prima ha rigettato, tra il 1964 ed il 1965, la richiesta di indipendenza della Rhodesia e poi, tra il 1978 ed il 1979, e successivamente ha rifiutato l’”accordo interno” che garantiva il suffragio universale ed il governo della maggioranza nera in cambio di alcune tutele e garanzie per la minoranza bianca. Così facendo ha regalato lo Zimbabwe al radicalismo socialista e nazionalista di Robert Mugabe, con le conseguenze che tutti conosciamo. In poco più di due decenni, lo Zimbabwe è passato dall’essere uno degli Stati più ricchi del continente ad essere il secondo Stato più povero al mondo dopo il Ciad, con la completa distruzione dell’economia agricola del paese, livelli di disoccupazioni che arrivano al 90%, un’inflazione che toccava gli ottanta miliardi per cento ed una diffusione incontrollata dell’AIDS.

La vicenda politica dello Rhodesia e dello Zimbabwe ci può certamente indurre una serie di considerazioni. In primo luogo, il pericolo rappresentato dal governo di Mugabe cominciò ad essere chiaro fin dagli anni ’80 e ci sono buone ragioni per le quali l’errore di valutazione compiuto dal Regno Unito nella gestione del dossier rhodesiano abbia contribuito alla diversa e più ragionata gestione, negli anni successivi, della questione sudafricana. Margaret Thatcher comprese che un paese come il Sudafrica non poteva essere lasciato nelle mani dei comunisti. Da un lato si rese conto di come embarghi e sanzioni producano effetti largamente controproducenti, dall’altro riconobbe come una transizione politica in quel paese dovesse necessariamente passare, come poi nei fatti è avvenuto, da un accordo interno accettabile anche dalla popolazione bianca. E’ così che, nei confronti del governo di Pretoria, la Lady di Ferro preferì, come Reagan, una strategia di constructive engagement alle più confortevoli semplificazioni ideologiche sposate dalla maggior parte dei governi occidentali.

E’, peraltro, interessante chiedersi cosa sarebbe successo se la Gran Bretagna, nel 1965, avesse concesso l'indipendenza al governo della Rhodesia, così come la concesse allo Zambia ed al Malawi – se, in altre parole, una Rhodesia indipendente nell’ambito del Commonwealth sarebbe potuta sopravvivere nel lungo periodo. La risposta a questa domanda è complessa e delicata. Certamente in Rhodesia i bianchi erano molto pochi e non sufficientemente radicati sul territorio e la parte della popolazione nera concretamente cooptabile in un sostegno alle istituzioni rhodesiane era troppo limitata. E' difficile, quindi, pensare che l'assetto rhodesiano potesse sopravvivere indefinitamente. La pressione politica esercitata dalla popolazione nera avrebbe, con tutta probabilità, reso indispensabile una transizione verso il suffragio universale.

Tuttavia, se la Rhodesia di Smith riuscì a tirare avanti in condizioni di stato “pariah” fino al 1979, in un contesto di riconoscimento internazionale avrebbe potuto ragionevolmente sperare di superare gli anni '80 e di aprirsi al suffragio universale in modo sostanzialmente sincrono con il Sudafrica e la Namibia. La vera scommessa sarebbe stata quella di “resistere” almeno a fin dopo la caduta dell'Unione Sovietica, in modo da evitare la presa del potere da parte di forze ideologicamente marxiste. Se il governo della Rhodesia fosse passato ad una leadership nera post-ideologica, la storia del paese sarebbe stata probabilmente diversa. Uno degli insegnamenti che, in ogni caso, si possono trarre dalla tragedia dello Zimbabwe è che anche un modello istituzionale ben costruito, come quello lasciato in eredita dal colonialismo britannico, nulla può se non è sostenuto da un corpo elettorale di cultura, valori ed educazione occidentale. Il sistema di pesi e contrappesi della democrazia anglosassone ha senz’altro rallentato lo scivolamento dello Zimbabwe verso il baratro, ma non ha, in definitiva, potuto impedirlo.

Nei fatti la democrazia non è solo forma ma anche, necessariamente, contenuto e per funzionare necessita di un livello di sviluppo della società civile che esiste nei paesi di cultura europea ed in alcuni paesi di cultura asiatica, ma che sfortunatamente quasi mai è presente nel resto del mondo – come del resto ci si è potuti accorgere anche negli ultimi anni con il fallimento del sogno neoconservatore di “esportazione della democrazia”. Nello specifico dell’Africa subsahariana, “un uomo, un voto” ha quasi sempre significato “un uomo, un voto, una volta sola”.

Un’ulteriore riflessione che discende dalla parabola della Rhodesia/Zimbabwe, è che un gruppo nazionale porta sempre con sé un legittimo diritto alla propria autodeterminazione anche quando è piccolo, come lo era quello rhodesiano, e che questa autodeterminazione deve intendersi non solamente come diritto alla preservazione della propria cultura, ma anche come diritto alla preservazione del proprio tenore di vita, cioè a raccogliere i frutti delle proprie iniziative economiche. Tuttavia, va anche pragmaticamente riconosciuto che questo diritto all’autodeterminazione è molto difficile da far valere nella pratica quando un gruppo nazionale non è maggioranza in un certo territorio.

L’anglosfera oggi esiste e prospera laddove storicamente le popolazioni di cultura britannica sono riuscite ad affermarsi come maggioranza nei loro paesi. Al di là della teoria, sul piano pratico è molto difficile sconnettere nazionalità e territorialità e questo vale a maggior ragione per quei gruppi nazionali che siano circondati da un contesto culturale profondamente diverso dal loro. I sionisti, tanto per fare un esempio, hanno ben presente che gli ebrei possono preservarsi come comunità nazionale solo restando maggioritari nello Stato di Israele e che qualsiasi sorpasso demografico da parte degli arabi significherebbe la sopraffazione dell’elemento nazionale ebraico. Il fatto che gli ebrei siano solidamente maggioranza in Israele è quello che consente loro di potersi permettere piena democrazia, pluralità culturale e tutela delle minoranze, che poi sono gli asset che danno forza alla posizione internazionale israeliana ed ai quali lo Stato ebraico deve la quota di sostegno che da sempre riesce a raccogliere nelle diplomazie del mondo libero.

Allo stesso modo, nel Sudafrica di oggi, molti afrikaner ritengono che l’unica loro possibilità di sopravvivere come nazione sia quella di vedersi riconosciuto un “volkstaat”, cioè la titolarità ad un proprio piccolo stato nazionale nel quale poter essere il gruppo etnico più numeroso. E’ la posizione, ad esempio, di chi sta provando a popolare la cittadina di Orania, nel deserto del Karoo, per farne una comunità autosufficiente. Obiettivamente, tuttavia, a questo punto dello Storia potrebbe essere troppo tardi perché possa essere implementato un progetto politico che vada oltre la pura valenza simbolica. Nei fatti la debolezza di lungo periodo degli africani bianchi è stata proprio quella di essere sparpagliati, come minoranza numerica, su un territorio troppo vasto e controllabile solo attraverso un’infrastruttura politica che ad un certo punto, per tante evidenti ragioni, si è rivelata non più sostenibile.

La rilevanza dell’eredità coloniale dell’Africa sta sempre più scemando ed è evidente che la vicenda rhodesiana è ormai considerata dai più solo una nota a margine della Storia. Al tempo stesso, chi attribuisce valore al pluralismo istituzionale e culturale non può non considerare che, quando un’esperienza nazionale e civile si disperde, ciò rappresenta sempre e comunque un impoverimento. Per quanto fosse innegabilmente portatrice di problemi e di contraddizioni oggettive e per quanto il suo modello politico ed istituzionale ad un certo punto sia diventato incompatibile con la concezione democratica moderna, la Rhodesia è stata anche una comunità fatta di persone con le loro vite, il loro onesto lavoro, i loro affetti e le loro ambizioni. Tutto questo deve e dovrà essere ricordato e rispettato, anche al di là del giudizio politico e storico su Cecil Rhodes o Ian Smith.