Islam e Italia. Dietro il no allo ius soli, la discriminazione religiosa?
Istituzioni ed economia
L’annosa questione dello 'ius soli' è stata riaperta recentemente e sta animando un dibattito politico e sociale piuttosto acceso. Occorre dire che c’è molta confusione sul contenuto del disegno di legge (è reperibile on line: 15.000 pagine, che comprendono anche gli 8000 emendamenti presentati dall’opposizione) e sulla normativa attualmente vigente in materia di cittadinanza. Partiamo dalla seconda.
La legge 5 febbraio 1992, n. 91 in materia di cittadinanza prevede che “è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini”. Si parla quindi di ”ius sanguinis”. Molto brevemente, altre due forme di naturalizzazione sono il matrimonio con un cittadino italiano (ci sono dei criteri da soddisfare) o la residenza per almeno 10 anni in Italia (anche qui, ci sono altre condizioni da rispettare).
Il disegno di legge “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91 e altre disposizioni in materia di cittadinanza” sullo ius soli, invece, attualmente in discussione al Senato – testo peraltro licenziato dalla Camera nel 2015 - non prevede l’acquisizione automatica della cittadinanza italiana per il solo fatto di essere nati in Italia; al contrario, la norma fissa paletti e condizioni precise da rispettare: titolarità di un permesso soggiorno Ue di lungo periodo di almeno uno dei due genitori stranieri, un reddito minimo, residenza legale continuata in Italia per un certo numero di anni... Non a caso quindi si parla di ius soli temperato, accanto al quale viene prevista un’altra forma di acquisizione della cittadinanza, lo ius culturae, che comporta sia per i minori nati in Italia sia per quelli nati all’estero l’acquisizione della cittadinanza dopo la frequenza e il superamento di un ciclo scolastico e dopo un certo periodo di permanenza in Italia.
In entrambi i casi – ius soli e ius culturae – è necessaria la dichiarazione di volontà del genitore o del tutore del minore entro il diciottesimo anno di età. Qualora mancasse tale dichiarazione, il ragazzo o la ragazza potrà comunque richiedere la cittadinanza entro il compimento del ventesimo anno di età. Quindi, in realtà, non c’è alcun automatismo, come credono o temono molti contrari.
Chi è ostile all’applicazione del principio dello ius soli in Italia invoca diversi argomenti. “L’italianità” è qualcosa di fisiologico, che scorre nel sangue, e che quindi non si può acquisire nemmeno vivendo in Italia per 150 anni; gli antenati di quelli che saranno i “nuovi italiani” non hanno combattuto e non sono morti per la Patria. C’è poi chi teme una “sostituzione etnica” e la conseguente “estinzione” degli italiani di sangue. Ancora, c’è chi teme una “invasione di barconi”, e via discorrendo.
Chi si dice favorevole, invece, afferma che chi è nato e cresciuto in Italia, tifa Roma o Milan, e magari preferisce gli spaghetti al cuscus è giusto che sia riconosciuto come cittadino a tutti gli effetti da quella che considera la propria madrepatria.
Certo sono tutti argomenti interessanti; tuttavia, un argomento contrario alla cosiddetta cittadinanza facile è molto più complesso rispetto a quelli sopra menzionati.
Quello che forse preoccupa di più, e sono in tanti a pensarlo, e non sempre a dirlo, è il legame che l’applicazione dello ius soli potrebbe avere con il fenomeno del terrorismo, quello in particolare di matrice islamica. Il dibattito peraltro sta avendo luogo in un contesto e in un momento storico particolare e delicato sotto questo punto di vista.
Non si può fare a meno, infatti, di rilevare che diversi degli ultimi attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa negli ultimi anni sono stati ideati e compiuti da cittadini “musulmani” naturalizzati sulla base dello ius soli.
Il collegamento è ancora più forte proprio se si guarda alle legislazioni di altri paesi europei; in Francia, per esempio, l’applicazione del principio del “droit du sol” ha una lunga tradizione: un bambino nato in Francia da un genitore straniero, a sua volta nato in Francia, è francese per nascita (“double droit du sol”). Un bambino nato in Francia da genitori stranieri nati all'estero diventa automaticamente e a pieno diritto cittadino al compimento della maggiore età (“droit du sol simple différé) se ha legalmente risieduto in Francia per un periodo – continuo o discontinuo - di almeno 5 anni, a partire dall’undicesimo anno di età. Prima della maggiore età, può acquisire la cittadinanza su richiesta dei genitori (tra i 13 e i 16 anni), o su richiesta personale (tra i 16 e i 18 anni), soddisfacendo i requisiti di durata di residenza sul suolo francese.
La normativa francese è molto diversa, quindi, da quella attualmente in vigore in Italia. La Francia è stata il Paese europeo più colpito da attentati e minacce di attentati negli ultimi due anni; è partito tutto con Charlie Hebdo, nel gennaio del 2015.
Ripercorriamo un po’ la storia e qualche nome.
Chérif Kouaichi e Said Kouaichi, nati a Parigi, francesi, sono gli autori dell’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015.
Yassine Salhi, cittadino francese di origini nordafricane, nel giugno del 2015 decapita in una cittadina vicina a Lione un imprenditore locale.
Abdelhamid Abaaoud, di origine marocchine e naturalizzato belga, combattente del sedicente stato islamico, è uno dei membri del commando responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del novembre 2015, insieme a Chakib Akrouh, anch’egli cittadino belga di origini marocchine, e Salah Abdeslam e Brahim Abdeslam, francesi di origini marocchine, naturalizzati belgi. Questi sono alcuni dei nomi, i più noti forse.
Sono tutti giovani, nati e cresciuti fra la Francia e il Belgio. Hanno chiaramente vissuto ai margini della società, molti in luoghi di periferia (si pensi alle banlieue parigine), dimenticati da Dio - quello stesso Dio invocato prima di commettere stragi – e terra di nessuno. I cittadini residenti in queste zone spacciano, fanno uso di sostanze alcoliche e stupefacenti: la violenza è all’ordine del giorno. I palazzoni fatiscenti diventano teatro di un grottesco spettacolo, soprattutto notturno. Povertà e disoccupazione (cause ed effetti del degrado mentale e fisico), mancata integrazione ed emarginazione sociale. Possono essere anche queste, fra le altre, le cause di questi eventi, le cause del fenomeno “jihadista”? Logorati dentro e fuori, questi giovani imparano un Islam fai-da-te e malinteso, orecchiato sul web non dai predicatori, ma dagli agitatori politici dell’odio terrorista. Allo stesso tempo non si integrano nella società e neppure nelle rispettive comunità religiose. Sono francesi e belgi, ma non lo sono. Sono islamici, ma non lo sono.
L’opposizione allo ius soli e il rifiuto di concedere la cittadinanza potrebbero quindi essere dovuti al cattivissimo esempio fornito da alcuni naturalizzati. Cosa succede se si concede la cittadinanza a una massa di nuovi cittadini che rifiutano l’ordine politico e giuridico del Paese di cui sono cittadini? Domanda legittima. Siamo sicuri, però, che gli immigrati islamici e i loro figli somiglino in genere a questo identikit?
In generale l’idea di migrazione è importante nella storia dell’Islam, a partire dalla migrazione della prima comunità islamica – all’ epoca perseguitata - da Mecca verso Medina.
Oggi, tuttavia, l'idea di “hijra” – emigrazione, appunto - è stata (anche) oggetto di interpretazioni estremiste, chiaramente da parte di gruppi estremi, che pretendono e giustificano l’isolamento dei musulmani – i quali in Occidente costituiscono in linea di principio una minoranza - dalla più grande comunità non musulmana “ospite”. Questi criticano i fedeli che si stabiliscono in paesi non musulmani e li invitano a migrare invece in un paese islamico, o almeno a maggioranza islamica. Diversamente – questa è la tesi – si troverebbero invece a vivere in situazioni e contesti regolati da norme e principi che non solo quelli del diritto islamico classico, il diritto sciaraitico, ma anche dal diritto positivo.
Sempre secondo questa interpretazione, Dio è l’unico legislatore, e il concetto di sovranità dello stato è un concetto obsoleto. Questo modo di pensare e di interpretare quindi incoraggia e giustifica la ghettizzazione, l’auto-ghettizzazione e l’atteggiamento indifferente (nel migliore dei casi) e di aggressività e violenza (nel peggiore dei casi) nei confronti della società che ospita una certa fetta di credenti.
Secondo un’altra lettura portata al parossismo, chiaramente opinabile, i musulmani che emigrano e si stabilizzano in un paese non islamico vengono addirittura etichettati come non credenti.
Si tratta di posizioni comunque poco condivise e molto contestate dagli stessi musulmani.
Il diritto islamico permette certamente al credente di migrare e stabilizzarsi in un paese non musulmano o sotto un governo non islamico, purché abbia la libertà di professare la propria religione e godere dei diritti umani fondamentali (questa interpretazione è peraltro sostenuta – a titolo informativo, ma abbiamo anche diversi altri esempi nella storia dell’Islam – dal fatto che il Profeta stesso avesse permesso ad uno zio di rimanere a Mecca, che in quel momento storico era pagana).
Addirittura, secondo alcuni sapienti e giuristi, è obbligatorio che un musulmano rimanga in un paese non musulmano se la sua presenza e le sue competenze sono necessarie alla comunità “ospite”.
Ogni tentativo di isolare i musulmani da altre comunità e dal resto della società per “preservare la fede” e “l'impegno verso la religione” costituisce uno sforzo inutile, perché l’Islam non impone o esige affatto questo isolamento, e soprattutto riconosce che un musulmano, ovunque decida di vivere, ha l’obbligo di fare i conti con l’ordinamento giuridico dello stato ospite e fare eventuali aggiustamenti o adeguamenti. L’unico limite, se così si può dire, come già accennato, è quello di poter professare liberamente la propria religione, tenendo in conto poi tutti i limiti del buon costume e dell’ordine pubblico che uno stato può avere.
Diventare parte attiva della società ospite è un obbligo. Una partecipazione attiva al progresso e allo sviluppo dello stato sono l’argomento più forte contro l'immagine negativa dell'Islam. I musulmani che vivono in paesi non islamici devono rispettare le leggi dello stato ospite; allo stesso tempo, devono evitare ogni cosa che potrebbe contraddire i precetti islamici. Chi acquisisce la cittadinanza e non è in grado di trovare il giusto equilibrio fra legge positiva e legge divina, e chi non si identifica nei valori della società di cui è cittadino, almeno de iure - de facto è un altro discorso - causa danni a chi invece crede realmente in determinati valori, non crede nel cosiddetto scontro di civiltà e dimostra che si può essere musulmano e al tempo stesso italiano, francese o americano.
Per questi motivi la prima sfida che si deve affrontare in una società plurale- quale è quella italiana - è la questione della diversità religiosa e della conseguente libertà religiosa. È una sfida, la diversità religiosa, perché ci mostra molte concezioni diverse della religione e, di conseguenza, molti diversi concetti di libertà religiosa.
Che cosa è quindi la religione? E che cos’è la libertà religiosa?
La prima risposta che si può dare è che è impossibile definire “religione” e “ libertà religiosa”: non abbiamo una definizione convincente e abbastanza ampia di queste due nozioni, e quindi, in mancanza di tali definizioni, il contenuto di religione e libertà di religione cambia ogni volta, a seconda del contesto e della comunità di appartenenza per esempio.
È quello che succede quando oggi i giudici devono pronunciarsi su una questione religiosa: essi si basano inevitabilmente su una specifica concezione di religione che non è universale, ma particolare, o comunque trasversale. Parliamo quindi in qualche modo di “impossibilità della libertà di religione”. Una risposta diversa invece al quesito potrebbe essere che la libertà di religione non è impossibile: è possibile, esiste, ma è fortemente e inevitabilmente colpita dal pregiudizio.
Tutti viviamo in un contesto definito dalla nostra cultura, storia e esperienza e, pertanto, applichiamo questo particolare punto di vista alla nostra concezione della religione e della libertà religiosa. In questo senso forse si può parlare di "universalità particolari": ciò che è universale inizia dall'esperienza del proprio particolare. Si può immaginare, si può pensare a qualcosa di universale che riflette la sua particolare condizione e cerca di aprirsi a ciò che non le appartiene, non dimenticando e non cancellando questa condizione, ma partendo proprio da una situazione particolare, da determinate idee, da una cultura e da una storia. Avere molte universalità particolari vuol dire avere quindi più opzioni di scelta per rispondere alla stessa domanda.
Ma ancora, ci sono due modi per garantire il diritto alla libertà di religione: garantire l'uguaglianza e garantire la diversità. Se si concede la libertà religiosa attraverso l'uguaglianza, i cittadini hanno accesso ai diritti civili e politici al pari di tutti gli altri, e in questo senso la religione non ha e non può avere alcun impatto su questi diritti. È forse il caso dello ius soli?
C'è anche un secondo modello per garantire la libertà religiosa, ovvero il riconoscimento della diversità, e per trovare questo modello si deve andare fuori dall'Europa, al di fuori del mondo occidentale in generale: si devono esplorare l'Asia e l'Africa. In questi paesi i diritti civili e politici frequentemente discendono dalla religione. È, in questi casi, la religione la base storica della comunità e dell’organizzazione politica. Il secondo è un modello completamente diverso dal primo e non si basa – o comunque si basa meno - sull'ideale del dualismo “politica – religione”, perché lo stato applica regole e norme religiose destinate al “credente–cittadino” nella sfera pubblica, nell'ambito dei diritti civili e politici.
Il problema in ogni caso non è giudicare quale dei suddetti sistemi sia in termini assoluti il migliore e vada quindi importato e tradotto in paesi lontani dalla sua origine, perché si può invece promuovere l'evoluzione di entrambi i sistemi in un mondo che garantisce ai cittadini una maggiore libertà religiosa.
Negare il diritto di cittadinanza ai musulmani – ciò che sta sotto alla gran parte delle opposizioni allo ius soli – non è un torto che si fa a una minoranza religiosa, ma una forma di discriminazione, cioè di violazione del principio di uguaglianza (a prescindere dall’identità religiosa) su cui si basa l’ordinamento giuridico degli stati europei.
Vale inoltre la pena di riflettere sul fatto che l’Islam non è la religione degli stranieri residenti in Italia: è la religione di alcuni cittadini italiani – già italiani o perché convertiti - e di alcuni cittadini stranieri. Diverse fedi e religioni coesistono in Italia, e tutte devono essere soggette al principio di laicità, come fissato dall’art. 8 della Costituzione. Questo principio è una delle basi del sistema costituzionale italiano: l'ordinamento giuridico non è indifferente alle diverse religioni esistenti nel suo territorio, ma dà a tutte loro la stessa dignità, non favorendo né censurando l’una o l’altra.
È sempre più difficile ignorare l'impatto dell'immigrazione sulla diversità religiosa, che è una delle componenti centrali della società multiculturale dell'Europa e che ha trasformato profondamente il panorama sociale e religioso del continente: gli immigrati non vengono solo con una valigia, ma introducono nuove convinzioni, nuovi costumi religiosamente fondati. Il diritto di professare la propria religione - per quanti credono in qualcuno o qualcosa - è un diritto fondamentale tanto quanto il diritto di non professare alcuna religione.
Solo la laicità delle istituzioni può garantire questi due diritti, che sono due facce della stessa medaglia, e solo il rispetto e la comprensione della storia e della religione islamica possono aiutare a distinguere fra Islam e l’islamismo. Ma nel “no” discriminatorio allo ius soli – gli islamici no! – non si avverte né il senso del rispetto, né quello della comprensione.