Con Nelson Mandela se n’è andata una delle figure più importanti, conosciute e “simboliche” del ventesimo secolo. La stragrande maggioranza di coloro che in questi giorni hanno ricordato l’ex-presidente sudafricano lo ha eretto ad una sorta di “eroe planetario”. Una lettura puramente “agiografica” della vicenda umana e politica di Nelson Mandela presenta, senza dubbio, un notevole fascino, ma rappresenta al tempo stesso un approccio non soddisfacente, perché non rende giustizia alla complessità della storia politica sudafricana.

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Il rischio è quello di sacrificare tanto l’analisi storica, quanto quella politica al bisogno collettivo (e mediatico) di costruire eroi e di evidenziare contrapposizioni manichee. La biografia di Mandela presenta, nei fatti, non solo momenti “alti”, ma anche passaggi più controversi, incluso il ricorso a mezzi non sempre giustificati dai fini. Naturalmente, quando una persona scompare, è buona regola parlare innanzitutto dei suoi meriti, almeno quando ciò è possibile - e nel caso di Nelson Mandela ciò è sicuramente possibile. Il più grande merito di Nelson Mandela è quello di aver gestito con notevole maturità la riconciliazione sudafricana, negli anni immediatamente seguenti alla fine dell’apartheid.

Nel 1993 il Sudafrica era un paese lacerato ed erano presenti tutti gli ingredienti per uno scenario di guerra civile. Gruppi paramilitari bianchi ben organizzati e pronti all’azione, una popolazione nera esasperata ed ideologizzata e violente contrapposizioni tra African National Congress e Inkhata nella provincia del Kwazulu-Natal. In questo delicato contesto Mandela ha saputo canalizzare i sentimenti rivoluzionari dei neri in un progetto gradualista ed al tempo stesso a conquistare presso l’elettorato bianco quel tanto di fiducia che bastava per legittimare il nuovo assetto politico. Malgrado i 27 anni trascorsi in carcere, nelle parole di Mandela non si intravedeva mai rancore, ma il richiamo ottimistico ad un progetto inclusivo e non razziale. Senza minimamente intaccare il suo prestigio di eroe del Sudafrica nero, ricercò tutti i possibili momenti di dialogo con il Sudafrica bianco, dalla famosa Coppa del Mondo di Rugby del 1995 fino ad un tè nell’enclave afrikaner di Orania con la vedova dell’architetto dell’apartheid Hendrik Verwoerd.

Sapienti operazioni di immagine, certamente, ma che contribuirono non poco alla distensione tra i gruppi razziali ed alla creazione –parziale - di un’identità nazionale condivisa. Quanto Mandela ha saputo conseguire su questo fronte, negli anni della sua presidenza, è stato un risultato importante e non scontato che finora ha assicurato la pace e la sostanziale praticabilità economica del paese. E c’è un altro aspetto della carriera politica di Mandela che raramente riceve menzione, ma che invece deve essere ricordato e riconosciuto: nel 1999 Mandela, dopo un solo mandato, decise di non ricandidarsi per la presidenza e di ritirarsi dalla vita politica. Ora, è evidente che la venerazione che “Madiba” riscuoteva nel paese era tale che gli avrebbe confortevolmente garantito una presidenza a vita, eppure Mandela è stato il primo leader nero dell’Africa ad essersi volontariamente ritirato, quando tutti gli altri “liberatori” africani avevano sempre costruito sulla “liberazione” un proprio impero personale. Si tratta di un importante segnale - un contributo ad una concezione meno assoluta del potere ed ad una concezione più occidentale della democrazia.

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Tuttavia Nelson Mandela non fu solamente tutto questo. Fu anche, nei fatti, il leader di un movimento che a lungo ha seguito strade politiche violente ed aderito a visioni politiche marxiste e filosovietiche. Nella delicata questione sudafricana, l’African National Congress è stato per decenni parte del problema, non parte della soluzione. L’ideologia comunista dell’ANC ed il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica rappresentavano un elemento di assoluta incomunicabilità con l’opinione pubblica bianca che negli anni si compattava sempre di più a sostegno del National Party al governo ed anche di partiti alla sua destra. Tanto più i neri erano visti come rivoluzionari, tanto più nel dibattito politico bianco si indebolivano le posizioni dei verligtes (riformatori) a favore dei verkramptes (conservatori) e tanto più il Sudafrica bianco percepiva di trovarsi di fronte alla scelta binaria tra comunismo e apartheid.

Peraltro, al contrario di quanto avveniva in Rhodesia, in Sudafrica i bianchi erano abbastanza numerosi e radicati da poter “gestire” la minaccia diretta rappresentata dall’ANC, anche se al prezzo di una progressiva militarizzazione della società. Similmente non ci sono evidenze che la politica di isolamento internazionale nei confronti del Sudafrica, ispirata dall’ANC, abbia contribuito ad accelerare la fine dell’apartheid; anzi con tutta probabilità l’ha ritardata. Le sanzioni da un lato hanno finito per colpire economicamente soprattutto i neri, dall’altro hanno rafforzato la mentalità di accerchiamento dei sudafricani bianchi e della loro classe politica. In questo senso il pattern elettorale degli anni ’80, con la possente avanzata a destra del Conservative Party di Andries Treurnicht, mostrava evidentemente come “sotto pressione“ una parte significativa dell’elettorato bianco rigettasse persino le moderate riforme introdotte da P.W. Botha. Alla fine, con tutta probabilità, il principale driver della svolta politica annunciata da F.W. De Klerk il 2 febbraio 1990 fu totalmente esterno rispetto all’operato dell’ANC di Mandela e da ricondursi al crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est e quindi alla neutralizzazione del potere geostrategico dell’Unione Sovietica. I mutati rapporti di forze a livello internazionale rendevano il rischio di esiti comunisti in Sudafrica meno concreto e pertanto consentivano al presidente De Klerk lo spazio di agibilità per provare a delineare – con un consenso sufficiente presso l’elettorato bianco -  una nuova fase politica.

Se quindi la prima critica che si può muovere a Mandela riguarda il modo in cui l’ANC ha gestito decenni di opposizione al governo della minoranza bianca, la seconda critica riguarda il tipo di infrastruttura istituzionale alla quale è stata data vita con il nuovo Sudafrica. Per evidenziare questo aspetto, è necessaria innanzitutto una premessa sulla presenza degli “europei” in Sudafrica. E’ bene avere chiaro che i bianchi in Sudafrica non sono occupanti che hanno invaso il paese per opprimere i neri. Gli afrikaner sono stati presenti in Sudafrica per oltre quattro secoli e mezzo; rappresentano a tutti gli effetti un gruppo nazionale ed il Sudafrica è la loro unica patria.Tra l’altro i bianchi sono i primi abitanti di molte parti del paese, dove invece è proprio l’immigrazione nera ad essere un fenomeno più recente. Afrikaner e britannici hanno costruito dal nulla un modello di società occidentale ed hanno cominciato ad interagire con i neri, sulla base di spontanee dinamiche di incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro. La situazione di vantaggio economico che contraddistingue la popolazione bianca è dunque in gran parte il prodotto di un processo legittimo di creazione di ricchezza. Stando così le cose, i bianchi hanno un diritto legittimo non solo alla loro presenza in Sudafrica, ma anche alla difesa della propria cultura nazionale e del proprio tenore di vita. Questo diritto, in linea di principio, non dovrebbe dipendere dalla loro consistenza numerica. I lussemburghesi non hanno un diritto inferiore a quello dei cinesi alla propria proprietà ed al proprio stile di vita.

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Ovviamente, al di là dell’astrazione,  l’esercizio effettivo di un tale diritto deve confrontarsi con il fatto che gli africani bianchi non sono una gruppo etnico territorialmente concentrato, ma che sono distribuiti in un ampio territorio in cui sono nettamente minoranza. Di conseguenza la posizione politica, economica e sociale dei bianchi passa necessariamente da forme di coesistenza con una maggioranza nera, anch’essa portatrice di diritti e di legittimi interessi. L’apartheid è stato l’istituzione con cui questa convivenza razziale è stata regolata per molti decenni. Si tratta di un sistema che ha mostrato una sostanziale efficienza nel preservare gli interessi politici ed economici della popolazione bianca ed a garantire ai neri (limitate) opportunità di lavoro e di educazione. Al tempo stesso si tratta di un sistema che presenta importanti problemi sia di ordine morale che di ordine pratico. Sul piano del principio, l’implementazione dell’apartheid è passata attraverso significative violazioni dei diritti di proprietà e della libertà economica ed attraverso un restringimento delle libertà civili. D’altronde, la presenza di una schiacciante maggioranza di neri che vivevano e lavoravano nei territori “bianchi” creava una situazione de facto che non si poteva pensare di gestire indefinitamente solo con obblighi, divieti e cartelli “Net Blankes” (“solo bianchi”). Alle aspirazioni di emancipazione sociale e politica dei neri bisognava dare uno sbocco, che non fosse semplicemente quello dei bantustan.

I negoziati tra De Klerk e Mandela all’inizio degli anni ’90 avevano come sfondo una situazione unica al mondo. Quella di un paese in bilico tra primo e terzo mondo, con una minoranza di africani bianchi, non “ospiti” ma assolutamente “indigeni”, che vivevano in un modello istituzionale, economico e culturale occidentale, ed una maggioranza di africani neri, fino a quel momento sostanzialmente esclusi dalle istituzioni politiche. Si trattava di una situazione che non poteva essere assimilata a quella della decolonizzazione di paesi africani che non avevano mai conosciuto un vero insediamento europeo, né a quella degli Stati americani del Sud, come l’Alabama o la Georgia. Questa situazione unica meritava che fossero messe in campo delle soluzioni istituzionali specifiche ed originali, anziché optare per la mera applicazione di un modello di democrazia unitaria, basata sul presidenzialismo e sul governo della maggioranza. Un buon modello per il Sudafrica avrebbe dovuto articolarsi su tre direttive fondamentali.

La prima è quella di un forte federalismo territoriale che avrebbe consentito di usare la provincia del Western Cape a maggioranza meticcia, il Kwazulu fedele a Buthelezi ed eventualmente un piccolo volkstaat afrikaner come contrappesi al ruolo dell’African National Congress. La seconda è quella di un federalismo non territoriale che permettesse alle quattro principali comunità (neri, bianchi, meticci ed asiatici) di disporre di organismi istituzionali in grado di decidere su un certo numero di materie ad esse devolute. In questo senso, il modello cui ispirarsi poteva essere quello del federalismo etnolinguistico del Belgio, che prevede appositi parlamenti per le tre comunità fiamminga, francofona e germanofona. La terza è quella di una gestione consociativa del governo nazionale, attraverso un sistema di alleanze obbligatorie quale quello che è alla base del modello nordirlandese, uscito dal Belfast Agreement e dagli Accordi del Venerdì Santo. Sarebbe stato un modello certamente imperfetto, ma che avrebbe garantito un effettivo power sharing, contemperando una prospettiva di avanzamento politico e sociale della popolazione nera con l’altrettanto legittima istanza della minoranza bianca di vedersi riconosciuta una posizione permanente all’interno di una “nazione di nazioni”.

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Il problema di Mandela è stato quello di essere rimasto ancorato ad uno schema ideologico socialista e repubblicano (in senso francese), secondo il quale la democrazia, i diritti civili e l’emancipazione nazionale possono realizzarsi solo in un contesto di centralizzazione politica, integrazione forzata e supremazia della maggioranza. E’ uno schema ideologico che non gli faceva concepire l’ammissibilità di paradigmi diversi, orizzontali, di organizzazione del potere e che lo portava a liquidare come reazionaria la difesa di altre appartenenze comunitarie che non fossero l’identificazione di tutti con la rainbow nation.

Naturalmente Mandela è stato assecondato da tanti in questa sua visione, sia a livello internazionale che a livello interno. Lo stesso F.W. De Klerk ha finito per sottoscrivere nella sostanza l’assetto istituzionale voluto da Mandela, in questo senso andando ben oltre lo sbocco che aveva prospettato all’elettorato bianco in occasione del  referendum del 1992 che gli conferì il mandato per trattare. Alla fine tutti hanno puntato tutto su Mandela, sulla sua capacità di fare una sintesi delle diverse esigenze e di interpretare un ruolo unificante a livello nazionale, ec’è da dire che Nelson Mandela personalmente si è mostrato all’altezza del compito che gli è stato affidato ed ha affrontato il suo mandato con lo spirito giusto per la complicata situazione.

Con l’abbandono della politica da parte di Mandela, si è, però, evidenziato il limite di una riconciliazione nazionale fondata tutta sul carisma e che invece non è sostenuta da adeguate tutele istituzionali.In Sudafrica non va tutto bene. Nei fatti la classe dirigente dell’ANC si sta mostrando ampiamente inadeguata e questo ha generato ampie sacche di corruzione e di nepotismo. La polarizzazione etnica del voto ha relegato la minoranza “europea” strutturalmente all’opposizione riducendo di molto la sua possibilità di incidere sulle scelte politiche – e la situazione è aggravata dalla progressiva modifica degli equilibri demografici, frutto dell’emigrazione di molto bianchi e del maggior tasso di natalità dei neri. I bianchi sono particolarmente penalizzati dal Black Economic Empowerment, un pervasivo programma di affirmative actions che ne limita l’agibilità economica – e rischiano di essere colpiti pesantemente dai progetti di riforma agraria.

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Sul piano culturale hanno pesato il significativo depotenziamento della lingua Afrikaans e la riscrittura della storia (toponomastica inclusa) da parte dei “vincitori”. La presidenza di Jacob Zuma rappresenta per molti versi una svolta in senso populista rispetto alle amministrazioni di Mandela e di Thabo Mbeki. Al tempo stesso stanno emergendo in Sudafrica giovani leader come Julius Malema apertamente portatori di un razzismo anti-bianco e che non fanno mistero di ispirarsi alle posizioni di Robert Mugabe. Il Sudafrica è un paese di fortissime disuguaglianze, ma il divario economico non è più solo quello tra bianchi e neri. Nel 2007 i bianchi rappresentavano solo il 43% del “primo decile” in termini di reddito e secondo Statistics South Africa ci sono circa nove milioni di non bianchi che stanno meglio, in termini di reddito e di educazione, rispetto a più di un milione di bianchi. Tuttavia i bianchi rappresentano una “minoranza visibile” e questo rende la loro posizione vulnerabile, in quanto è assolutamente plausibile che ad un certo punto un governo scelga di giocare la “carta razziale” per guadagnare facile consenso.

Purtroppo il modello istituzionale nato nel 1994 è del tutto aperto agli esiti che si sono prodotti in Zimbabwe. Evidentemente l’orologio della storia non può essere portato indietro. Gli equilibri politici sono cambiati e la soluzione “federalista” che sarebbe stata possibile ed auspicabile venti anni fa non è più realisticamente praticabile oggi. Certo alcuni paletti si dovrebbe comunque provare a metterli, innanzitutto superando le politiche di “reverse discrimination” e difendendo una piena “cittadinanza morale” degli africani bianchi. E’ chiaro che, in virtù degli attuali equilibri numerici, la difesa dei diritti civili ed economici dei cittadini bianchi passerà dal consenso della maggioranza nera. In questo senso è comprensibile che i bianchi provino ad appropriarsi in qualche modo del “mito di Mandela”, dello spirito migliore della sua presidenza, per sostenere l’idea di un Sudafrica in cui ci sia posto per tutti.