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Il nostro intento non è, qui, di decrittare tutto ciò che concorre all'ascesa dei populismi, di destra o di sinistra, in molti Paesi membri dell'Unione europea: disoccupazione, declassamento sociale, insicurezza, mondializzazione, migrazioni, terrorismo, invecchiamento della popolazione… Tutti questi fattori non ci dicono niente, in definitiva, sulle ragioni di chi, ben al di là dei partiti populisti, usa l'Europa come capro espiatorio di questi problemi ai quali i Paesi europei e l'Unione europea faticano a rispondere.

È nostra convinzione che all’ombra del populismo in tutte le sue declinazioni europee, al di là e al di sotto dei variegati terreni dove esso si sviluppa, grandi forze siano all'opera. Esse si nutrono dei populismi tanto quanto a loro volta li nutrono, da qualche decennio ormai.

Queste forze, spesso costituite in vere e proprie caste, si percepiscono, coscientemente o incoscientemente, ma a giusto titolo, come i futuri declassati. Resistono quindi, con tutte le loro energie, pronte a tutto: persino, come in altri tragici momenti della storia europea, alla politica del tanto peggio tanto meglio. Hanno trovato nel discredito ad nauseam del progetto europeo la loro bandiera, nei partiti populisti che la sventolano il loro migliore nemico, nello spartito suonato di concerto il modo migliore per salvaguardare i propri poteri e le proprie rendite di posizione. Come si addice a donne e uomini di mondo, la loro musica è sobria, le loro armi predilette sono l'inerzia, l'ostruzionismo e le false buone idee.

Un esercito di più di centomila donne e uomini

È nei luoghi ovattati dei corpi diplomatici degli Stati membri dell'Unione europea che risiede il nucleo duro di questa reazione anti-europea. Questo “esercito” europeo di più di 100.000 donne e uomini forgiati negli stessi stampi, temprati da comuni riti, resi familiari da frequenti riunioni comuni e dalla partecipazione a innumerevoli cocktail e altri ricevimenti che costellano le attività diplomatiche, saldati al vertice delle loro rispettive piramidi nel grande imbuto degli affari europei costituito dal Consiglio Affari generali e dal Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper) a Bruxelles, portatori di una visione largamente condivisa della loro funzione e del loro avvenire rappresenta la forza la più compatta, e quindi la più potente, nell'opera di denigrazione e di sabotaggio del progetto europeo.

Non è andata sempre così. A lungo i nostri diplomatici hanno potuto inorgoglirsi, spesso a giusto titolo, di essere all'avanguardia dell'integrazione europea. Va ammesso tuttavia che questa posizione era tanto più comoda in quanto ad ogni tappa della comunitarizzazione di settori sempre più ampi della vita economica, sociale e politica, essi rafforzavano i propri poteri. Ma sono altri tempi, ormai passati, perché, oggi, è in larga misura dalla comunitarizzazione di parti importanti delle loro competenze e prerogative che dipende il futuro dell'Europa.

I nostri diplomatici non lo ignorano. Così come sono coscienti del divario sempre più palese tra il ruolo teoricamente svolto e quello effettivamente svolto da parte di ciascuno degli Stati membri dell'UE, compresi i più grandi, nella grande partita delle relazioni internazionali.

Avrebbero potuto dedicarsi a far emergere progressivamente un'Europa degli Affari Esteri e della Difesa. Ma, come in altri contesti storici, quando di Saint-John Perse non ce n’erano molti, hanno preferito garantire la perennità delle loro prerogative, dei loro privilegi e del loro habitus e hanno optato, in tutta coscienza, per il sabotaggio di qualsiasi tentativo di comunitarizzazione, fosse pure parziale, delle loro competenze. Tre esempi, fra altri, lo illustrano in modo emblematico.

Lo spazio Schengen

Nel 1995, sette Stati membri dell'Unione firmano gli accordi di Schengen. Due anni più tardi, durante il negoziato del Trattato di Amsterdam, la convenzione di applicazione e i regolamenti relativi sono introdotti nel diritto dell'Unione europea. Nel 2016, vent'anni più tardi e mentre 22 Stati membri fanno ormai parte di questo spazio di libera circolazione, l'Unione europea non dispone ancora di un corpo consolare comune.

Brexit

La Brexit, ma anche la deriva ungherese e le diversioni della Polonia, dimostrano ciò che era palese da molto tempo: il motore europeo non può fare a meno di un cambio di velocità. Un cambio con almeno due velocità: una per un'Europa più vasta, l'Europa delle quattro libertà dalla quale scomparirebbe la nozione di “unione sempre più stretta” e una per un'Europa più ristretta, fondata attorno alla moneta unica ed a un'integrazione economica e fiscale da completare da una parte, ad una politica estera e di sicurezza comuni da costruire dall’altra. I nostri corpi diplomatici erano in prima fila per avvertire tutto questo e avevano l'onere, assieme agli uomini politici, di scongiurare il triste scenario che oggi conosciamo. Lo sono tuttora. Eppure, a vedere la bramosia con la quale alcuni sognano, per esempio, di impadronirsi della futura spoglia della City per trasferirla a Francoforte, Milano o Parigi, oppure i loro attacchi contro l'uso futuro dell'inglese nelle istituzioni europee, bisogna constatare che i riflessi da “bottegai nazionali” sembrano prevalere ancora, a scapito dell'interesse europeo.

La difesa europea

Si dice che a Bratislava, non molto tempo fa, l'Europa abbia preso importanti decisioni nel campo della sicurezza e della difesa. Purtroppo la realtà è tutt'altra. Questa iniziativa, come le precedenti, non avrà nessun futuro se non quello di alimentare ancora e sempre le illusioni. Nessuno meglio dei nostri diplomatici, sin dall'inizio al centro del processo di costruzione europea, sa che, per funzionare, un'iniziativa di integrazione deve, qualunque sia il suo campo di applicazione, rispondere ad alcune condizioni: gestione da parte di un organo indipendente dagli Stati (la Commissione), meccanismi di decisione efficaci (con la proscrizione della regola dell'unanimità), definizione delle priorità e controllo dell'azione della Commissione da parte del Consiglio (gli Stati) e dei cittadini (il Parlamento europeo) e, last but not least, obiettivi chiari ed identificabili dai più.

A guardarla da vicino, la recente iniziativa in materia di politica europea di difesa non risponde a nessuno di questi criteri. L'obiettivo è estremamente limitato e totalmente illeggibile da parte dei cittadini. L’obiettivo chiave – la creazione di battle groups - non è altro che una presa in giro. Tali forze esistono già (l'Eurocorps in particolare) e non sono quasi mai state dispiegate, proprio in ragione dell'assenza di istituzioni politiche legittime ed efficaci in grado di deciderne e di gestirne l'impiego.

Dei potenti alleati

In questa grande e sapiente operazione di sabotaggio della costruzione europea, i nostri diplomatici non sono, ovviamente, soli. Possono contare su alleati solidi, prima fra tutti la costellazione delle industrie nazionali degli armamenti, gelose delle proprie “riserve di caccia”, profondamente attaccate alle proprie rendite di posizione, spesso confortevolmente installate in logiche di socializzazione dei costi di ricerca/sviluppo e di commercializzazione e di privatizzazione dei benefici. Queste forze non hanno bisogno di portavoce. Possono contare su un pletorico esercito di giornalisti che un reale “passaggio all’Europa” - con quel che comporterebbe in termini di giornalismo d’inchiesta, di decrittazione delle poste in gioco europee e di seria cronaca parlamentare ed istituzionale europea - trasformerebbe da potenziali declassati in declassati tout court.

Di fronte a questa possente “coalition of (un)willing” sta una classe politica senza progetto, senza linea, che naviga a vista, alla giornata, subalterna alla potente coalizione di corpi costituiti, rafforzata da alcune falangi di utili idioti, compresi alcuni tra gli araldi della causa europea, chi in estasi davanti alla minestra riscaldata dei “battle groups”, chi in procinto di soccombere nuovamente alle sirene dei modelli perfetti, Stati Uniti d'Europa o Repubblica europea.

Questa coalizione ha, come è ovvio, altri alleati: nel settore bancario, tuttora molto nazionale, in altri settori dell'alta amministrazione statale, in quella grande industria che deve buona parte della propria prosperità alla contiguità con le più alte sfere degli Stati. Ma, a voler troppo raffinare l'analisi, si rischierebbe di perdere di vista il cuore operativo di questa grande forza reazionaria che irradia, in misura diversa ed in diversi modi, tutti i Paesi membri dell'Unione europea o, per riprendere Clausewitz, si rischia di non capire più chi sia il vero nemico dell'Europa.

Se la constatazione è esatta, le conclusioni s'impongono da sé. Si tratta in primo luogo di dare ai governi degli Stati membri e, al contempo, ai loro rispettivi parlamenti il controllo del processo legislativo europeo. L'urgenza assoluta è quindi quella di emancipare, finalmente, la rappresentanza degli Stati in seno alle istituzioni europee dalla presa degli apparati diplomatici nazionali. A tale fine la priorità delle priorità deve essere la politicizzazione e l'istituzionalizzazione dell'attuale Consiglio (dei ministri) dell’UE, trasformandolo in un vero e proprio Senato europeo che si riunisca ogni settimana a Bruxelles con dibattiti, relazioni, risoluzioni e voti pubblici.

Sempre tenendo a mente l'equilibrio dei poteri fra le tre istituzioni, anche la questione della legittimità e della forza dell'esecutivo europeo deve collocarsi in prima fila. Coerentemente con il pieno riconoscimento del carattere bicamerale della rappresentazione europea, confortata dall'affermazione del Senato europeo, converrebbe riconoscere l'impraticabilità dello scenario attuale dove solo il Parlamento europeo è incaricato della nomina dell'esecutivo, e optare per un sistema presidenziale con l'elezione a suffragio universale del Presidente della Commissione europea.

Infine, in materia di integrazione europea nel campo della difesa, è indispensabile riconoscere che esiste una soglia minima al di sotto della quale qualsiasi iniziativa in questo campo è perfettamente illusoria. Questa soglia può essere definita con il rispetto di tre criteri: uno strumento realmente comune – un esercito europeo comune composto da ufficiali e da soldati europei e non un conglomerato di contingenti nazionali; un'autorità politica sovranazionale unica responsabile dello strumento comune - il presidente della Commissione europea assistito da un commissario ad hoc; un’autorità dotata della più alta legittimità politica incaricata di ratificare la decisione dell'impiego dello strumento comune - il Consiglio dei capi di Stato e di governo dei paesi interessati costituito in un Alto Consiglio europeo della Sicurezza.

Chiaramente i corpi diplomatici degli Stati membri ed i grandi gruppi europei dell'industria della difesa hanno capito molto bene che un serio passo in avanti in materia di difesa europea comune implicherebbe l'attuazione progressiva di una reale politica estera comune, la costituzione progressiva di un corpo diplomatico comune e di un'industria della difesa comune e quindi la fine delle piccole (e grandi) intese tra i primi ed i secondi, a scapito degli interessi e della sicurezza dell'Europa e dei suoi cittadini.

@OlivierDupuis3