Trump, il Partito Repubblicano e la rivincita dell’America profonda
Istituzioni ed economia
Il successo di Donald Trump alle presidenziali americane è stato un evento politico di grande portata, il cui impatto è stato accresciuto dalla convinzione largamente diffusa dai media che l’elezione di Hillary Clinton non fosse realisticamente in discussione. È stato definito il Brexit americano e del Brexit, in effetti, condivideva la medesima improbabilità secondo sondaggisti e bookmaker.
Naturalmente il parallelo rispetto al referendum britannico può essere solamente parziale. La posta in gioco era evidentemente diversa ed alcune delle argomentazioni politiche delle parti vincitrici sono addirittura opposte. Tanto Boris Johnson che Nigel Farage, infatti, erano sostenitori convinti dei trattati di libero scambio, e il nuovo primo ministro Theresa May proprio in questi giorni ha ribadito che la Gran Bretagna del Brexit sarà la più appassionata e devota sostenitrice del libero commercio nel mondo.
È proprio su questo tema, invece, che la piattaforma politica di Trump appare più preoccupante; le forti obiezioni del tycoon rispetto al NAFTA, al TPP e al TTIP fanno crescere il rischio di svolte in senso protezionistico, anche se probabilmente ci vorrà un po’ di tempo per comprendere quanto a fondo il nuovo presidente voglia spingersi su questo fronte. Non c’è dubbio, tuttavia, che con il Brexit la vittoria di Trump negli USA condivide la definizione di un rinnovato scenario nel rapporto tra cittadini ed istituzioni che implica inevitabilmente anche una riconfigurazione dell’offerta politica.
La forza del Partito Repubblicano statunitense e del Partito Conservatore britannico è stata quella di essere sufficientemente aperti per adattarsi alla nuova situazione, colmando il gap di rappresentanza attraverso i propri meccanismi interni e riducendo così il rischio che la richiesta di cambiamento trovasse uno sfogo attraverso percorsi troppo accidentati.
Alcuni hanno tracciato un paragone tra il possibile asse Trump-May e la relazione speciale che intercorreva tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È un paragone senz’altro suggestivo, anche se probabilmente prematuro; comunque la sensazione è che, sia pur in termini meno ideologicamente netti, si stia assistendo oggi ad uno strappo rispetto al mainstream politico paragonabile per intensità a quello rappresentato dall’avvento, a suo tempo, della Thacther e di Reagan. È chiaro che, per tante ragioni, Donald non è Ronnie e Theresa non è Maggie, ma al tempo stesso molto simile è la lettura che di loro veniva o viene data dalla “politica per bene” e dal “giornalismo per bene”, specie in quell’Europa continentale che oggi come allora non capisce e non si capacita.
Oggi anche chi nel mondo liberale e liberalconservatore si trovi distante da Trump su alcuni temi, importanti o meno, può comunque almeno apprezzare il fatto che l’elezione del tycoon rappresenti un elemento di “rottura della narrazione” e pertanto riapra in generale spazi di dibattito politico a beneficio di chi propone idee conflittuali rispetto allo status quo.
Anche se in linea di principio pericoli alla libertà di espressione possono venire anche da destra, in questo momento storico le spinte più forti alla censura, alla “pulizia linguistica” ed all’ostracismo delle opinioni dissidenti paiono arrivare proprio dal mondo progressista. Se alcuni decenni fa le università americane erano luoghi in cui ci si batteva per il “free speech”, oggi sono luoghi in cui si reclamano i “safe space”, cioè il diritto ad essere preservati da qualsiasi opinione “scorretta” e scomoda.
In un contesto in cui tutto l’”opinion making” ha raggiunto punte di unanimismo mai conosciute in passato a favore del candidato “ufficiale”, a molti è apparso che, prima di ogni altra considerazione, il voto per Trump sia stato un modo di gridare “il Re è nudo”, infrangendo la cortina di ferro del politicamente corretto. Certo, tra le critiche che sono state portate in questi mesi a Trump, una delle più ricorrenti è stata quella di rappresentare un concentrato di bigotteria – un impenitente razzista, maschilista ed omofobo.
Eppure, se si guarda in modo più oggettivo al fenomeno Trump, è proprio l’aspetto dell’"inclusività" quello che dovrebbe spaventare meno. Nei fatti il tycoon è meno religioso e meno ossessionato con la famiglia tradizionale della maggior parte dei leader repubblicani, non risulta nessuna sua posizione classificabile come omofoba (anzi ne risultano di apertamente gay friendly), ha donne e neri nella sua squadra di più stretti collaboratori e futuri membri del governo, ha sposato due donne straniere ed è un “nazista” così improbabile che la sua figlia prediletta Ivanka – secondo molti la vera “first Lady” – è di religione ebraica. Il movimento di Trump è quindi, in definitiva, un movimento plurale, anche senza il bisogno, così sentito dai Democratici, di presentarsi sotto forma di una coalizione di identità organizzate (“le donne”, “i giovani”, “i neri”, “gli ispanici”, etc.).
In ogni caso, quello che è sicuro è che Trump – pur personaggio eccentrico – non governerà da solo. La squadra che sta delineando è di buon livello e sarà in grado di compensare la “gioventù” del presidente negli ambiti della politica e della diplomazia e di mitigare alcune delle sue posizioni più controverse. Il vicepresidente Mike Pence è un conservatore tradizionale che gode di ampia stima ed avrà probabilmente un ruolo più attivo nel governo rispetto ai suoi predecessori. Con Trump ci saranno anche il neurochirurgo Ben Carson, un conservatore nero che è stato tra i candidati alla nomination repubblicana, oltre che Newt Gingrich, l’uomo che con il suo “Contratto con l’America” guadagnò ai Repubblicani la storica vittoria al Congresso del 1994. E ci sarà anche quel Rudy Giuliani la cui candidatura presidenziale tanti, otto anni fa, sostennero, anche qui in Italia, come simbolo dell’ala più aperta e moderna del Partito Repubblicano.
La vittoria di Trump è stata anche accompagnata da un risultato straordinario per il GOP che ha mantenuto il controllo di Camera e Senato ed ora governa circa i due terzi degli Stati. Questo risultato consentirà a Trump ed ai Repubblicani di nominare il giudice della Corte Suprema che sostituirà Antonin Scalia, scomparso a febbraio. Secondo alcuni la possibilità per i Repubblicani di nominare degli “originalisti” alla Corte Suprema è forse addirittura l’esito più importante dell’intera tornata elettorale, in quanto tale scelta potrebbe influenzare la politica americana per molti anni a venire.
Nel delicato equilibrio tra i poteri, infatti, la Corte Suprema si sta ritagliando un ruolo sempre più importante con pericolose invasioni di campo che stanno conferendo alla dimensione federale competenze che vanno ben oltre la lettera della Costituzione. Paradossalmente, se oggi da un presidente possono venire veramente danni seri per il paese è perché negli anni si è consentita la progressiva espansione delle prerogative del governo federale e della Casa Bianca. Per questa ragione è oggi più che mai importante che i giudici della Corte Suprema difendano la Costituzione, anziché interpretarla, consentendo così di ricondurre il governo federale al suo legittimo ambito.
I “limiti” a Trump, tuttavia, non verranno solo dalla necessità di negoziare con il Congresso e con l’establishment del Partito Repubblicano, ma anche dal basso - dal proprio elettorato. È vero che Trump ha guadagnato alla propria campagna alcune constituency tradizionalmente democratiche, alle quali dovrà pagare inevitabilmente un dazio politico, in particolare quella dei “perdenti della globalizzazione”. Tuttavia, per quanto la base di voto repubblicana a questo giro si sia in parte modificata, non si può certo dire che nel complesso sia sconvolta, rispetto alle passate presidenziali.
Con la sola eccezione dello Utah, dove il candidato indipendente McMullin si è issato oltre il 20%, non si è registrata alcuna particolare defezione nel sostegno al GOP. I Repubblicani #nevertrumps, pur mediaticamente pompati, si sono dimostrati un fenomeno elitario e verticistico, privo di riflesso sul campo. Insomma, alla fine l’elettorato che ha votato per il milliardario newyorkese è in larghissima parte lo stesso che avrebbe votato per candidati repubblicani più classicamente liberisti come Ted Cruz o Marco Rubio, qualora fossero arrivati loro alla sfida con la Clinton.
È chiaro quindi che Trump non dovrà rispondere solo agli operai ed ai disoccupati della “rust belt” che chiedono “protezione” ed intervento pubblico, ma anche all’elettorato repubblicano più tradizionale che vuole meno tasse, meno stato e meno politica.
In fondo sarebbe riduttivo vedere la vittoria di Donald Trump solo come un incidente, quando invece si inserisce comunque in un processo politico più ampio e complesso che negli ultimi anni ha attraversato la destra americana e che in termini complessivi si è contraddistinto per una cifra politica fortemente antistatalista – basti pensare all’impressionante ascesa dei Tea Party.
Naturalmente quasi mai le dinamiche politiche procedono in termini puramente lineari, pertanto non si può dire che la nuova fase della destra americana si stia declinando senza contraddizioni; al tempo stesso, tuttavia, chi ha sostenuto, in questi mesi, la totale estraneità di Trump alla prospettiva politica conservatrice lo ha fatto probabilmente in modo troppo frettoloso.
Anche per quanto riguarda la politica estera, il non interventismo trumpiano non appare un’invenzione estemporanea. È molto tempo che nell’elettorato americano, incluso l’elettorato di destra, è presente un sentimento di stanchezza per una politica estera interventista molto costosa in termini di vite umane e di dollari e che è spesso foriera di guai, a fronte di benefici geostrategici che appaiono sempre più dubbi. Per parecchi americani dopo la vittoria di Reagan sull’Unione Sovietica non c’erano ormai più ragioni di continuare ad essere i poliziotti del mondo, come già dimostrava il relativo successo delle campagne di Pat Buchanan e di Ross Perot nel 1992 e nel 1996.
Molti dimenticano che già nel 2000 George W. Bush era stato eletto con la promessa di un disimpegno americano dagli scenari mondiali, anche se l’11 settembre mutò poi radicalmente l’opinione tanto della sua amministrazione quanto dell’elettorato americano. Tuttavia ormai non sono solo passati 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, ma anche 15 anni dall’attentato alle Torri Gemelle, e di conflitti in cui imbarcarsi in nome di qualche interesse concreto dell’America non se ne vedono. Considerando lo scarso interesse che persino noi europei abbiamo per scenari di crisi prossimi ai nostri confini, è veramente difficile fare una colpa all’amministrazione Trump di un’eventuale strategia di “ripiegamento”.
L’elezione ha, senza dubbio, segnato una profonda divisione tra le due anime che condividono lo stesso paese: l’America delle città sempre più fortemente in mano ai democratici e l’America profonda saldamente repubblicana. La prima gode di una presenza sproporzionata in tutto ciò che fa cultura e informazione, al punto da finire per convincersi di essere l’unica America o comunque l’America “giusta” perché più evoluta e culturalmente sofisticata. La seconda viene vista e rappresentata come l’America che è rimasta indietro, ignorante, rozza, di vedute anguste ed imbevuta di pregiudizi. Da una parte i giornali e le università, dall’altra i ranch e le pistole.
Quello che spesso non viene compreso è quanto la prima America sia debitrice alla seconda - quanto l’America delle città, come la conosciamo, non potrebbe esistere senza l’America profonda, che ci rifiutiamo di conoscere. Non puoi avere le feste LGBT di San Francisco, i PhD in gender issues, le conferenze sul climate change, il “diversity management” delle grandi aziende, le pellicole di Hollywood, i successi teatrali di Broadway o l’atmosfera alla “Sex and the City” se non ti prendi anche tutte le altre manifestazioni dell’attività umana meno glamour, meno turistiche, meno culturali, meno “social” che pure contribuiscono a fare grandi gli Stati Uniti.
Questo perché tutto ciò di cui si compiace l’America “liberal” è un prodotto culturale che è possibile solamente in una società ricca e benestante – una società che, nei fatti, deve la sua prosperità ai princìpi di libertà e responsabilità individuale che costituiscono l’"eccezionalismo americano". Ebbene, questi princìpi non serve essere colti e sofisticati per comprenderli e per difenderli; anzi sono sopravvissuti negli anni molto più grazie ai bifolchi del Wyoming, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, che grazie alle élite politiche e culturali del paese che da sempre invece subiscono la fascinazione per un socialismo sul modello europeo.
In qualche misura, quindi, lo straordinario successo dell’America “liberal”, in termini di attrattività e di narrazione, avviene in gran parte come “free riding” dei valori di antistatalismo, libertà individuale e governo limitato che il progressismo avversa. Senza il contrappeso politico rappresentato dall’America profonda, New York e San Francisco non sarebbero le meraviglie che tutti conosciamo, ma sarebbero da tempo collassate sotto il peso delle sovrastrutture culturali, delle burocrazie, delle rendite politiche e del welfare famelico. Senza i “red states”, la California sarebbe da tempo un’altra Grecia, più che la capitale mondiale dell’alta tecnologia.
Per questa ragione un ribilanciamento della politica di Washington, ma anche dello “storytelling” mediatico, che conferisca pari dignità a tutte le componenti del paese potrebbe essere solo salutare.
Insomma: ha vinto Trump, ma la valenza di queste elezioni va oltre Trump e ci parla, più in generale, delle polarità politiche attorno alle quali si articola la cultura e la società americana. Ci vorrà del tempo per comprendere veramente le implicazioni di questa nuova fase politica che non è priva di rischi e di incertezze.
Al tempo stesso, tuttavia, l’esito delle elezioni americane, nel loro complesso – non solo la Casa Bianca, ma anche il Congresso – può aprire una finestra di opportunità per chi sostiene posizioni liberalconservatrici ed antistataliste.