clintontrump debate

Prima di iniziare la mia analisi faccio una premessa: anch’io ho sbagliato prevedendo una vittoria di Hillary Clinton. Detto questo, chi come me si occupa di scienze politiche e fa l’analista politico deve imparare dagli errori e comprendere dove ha sbagliato (anche se in abbondante compagnia).

Prima considerazione: i sondaggi hanno sbagliato, ma meno di quanto è stato sostenuto a caldo. Alla fine Hillary Clinton ha prevalso nel voto popolare e il margine di errore dei sondaggi nazionali è stato inferiore a quattro anni fa (ma in quel caso Obama vinse). La vera debacle è stata quella della miriade di esperimenti predittivi (basati su algoritmi, medie dei sondaggi, analisi big data) nati sull’onda del successo di Nate Silver nel 2012.

Upshot-New York Times dava l’85% di probabilità di successo ad Hillary Clinton, sostenendo che equivalesse alla possibilità di un kicker del football americano di mancare un field goal dalle 37 yards (più o meno un rigore nel nostro calcio). Il Forecast dell’Huffington Post si spingeva a dare il 98% alla candidata democratica. Sam Wang del Princeton Election Consortium dava per certa la vittoria di Hillary Clinton assegnandole addirittura 323 voti elettorali contro i 215 di Trump. Il più cauto era stato Nate Silver che, pur assegnando al 71% la vittoria ad Hillary, continuava ad affermare che restava aperto un sentiero per la vittoria di Trump.

Come è finita lo sappiamo tutti. Nessuno aveva previsto la vittoria tranne un professore di storia presso l’American University di Washington, Allan Lichtman. Il suo metodo, basato su tredici semplici domande con risposta vero/falso, gli ha permesso di indovinare tutti i pronostici dal 1984 ad oggi.

Fattori più generali quali la situazione economica (a breve e a lungo termine) e l’indice di approvazione dell’operato del presidente, l’instabilità sociale, i fallimenti/successi militari e in politica estera, il carisma del candidato del partito in carica e dello sfidante sono indicatori dell’esito finale più precisi delle fluttuazioni nelle indicazioni di voto, spesso dovute a fattori di breve periodo (l’effetto convention, i dibattiti, errori grossolani da parte di uno dei candidati, notizie clamorose, ecc.).

Per Lichtman il suo modello predittivo non è influenzato dalle opinioni, ma è solo frutto del sistema. I democratici erano andati male nelle elezioni di metà mandato e non potevano schierare il presidente in carica, non vi erano state grandi riforme come quella sanitaria effettuata da Obama nei primi quattro anni, non vi erano stati importanti successi in politica estera ed Hillary non aveva il carisma del suo successore. Insomma, tutto andava nella direzione favorevole ai repubblicani nonostante un candidato anomalo come Trump.

Per quanti stanno celebrando ex post Donald Trump, vorrei ricordare che ha preso meno voti di Romney quattro anni prima. Il vero disastro è stato quello della Clinton, che ha perso per strada più di 6 milioni di voti. Trump è il quarto presidente nella storia degli Stati Uniti ad essere eletto pur prendendo meno voti su base nazionale del suo avversario. I predecessori sono Hayes nel 1876, Harrison nel 1888 e Bush nel 2000. Sì, proprio Bush, che nel 2000 sconfisse Al Gore, un candidato democratico non uscente e considerato dalla maggioranza degli americani come poco simpatico e lontano dalle persone comuni. Vi è venuta in mente Hillary? Avete fatto bene.

Bush riuscì a ripetersi quattro anni dopo, nonostante la maggior parte dei pronostici fosse a favore del candidato democratico John Kerry (il successore di Hillary Clinton a segretario di Stato, tra l’altro). Ancora una volta un candidato lontano dalle persone comuni, descritto con successo come un ricco liberal della costa est e debole dal punto di vista caratteriale. L’attenzione dei media fu tutta sull’aumento della partecipazione al voto: “sono le donne e i giovani, Kerry vincerà” fu il sentire comune. Il candidato democratico effettivamente incrementò di otto milioni gli elettori rispetto alle elezioni tenutesi nel 2000, ma Bush ne ottenne 11 milioni e mezzo in più rispetto a quattro anni prima. I repubblicani avevano trovato una miniera d’oro nel Midwest e tra quegli elettori che sfuggono ai sondaggi e alle analisi dei media.

La storia sembra non aver insegnato nulla: Hillary non solo è stata sconfitta pesantemente nelle aree rurali, ma ha perso nelle piccole città e nelle aree industriali della Rust Belt (Wisconsin, Michigan, Ohio e Pennsylvania).

Qui non si tratta di problemi di campionamento, i sondaggi non dovrebbero servire a dire “chi vince” (funzione oracolo), ma a dire “come vincere” (funzione strategica). Così, occupandosi di modificare il colore degli stati nelle cartine, ci si è dimenticati di analizzare in profondità altri “stati”, vale a dire gli stati d’animo dell’elettorato. Eppure che la “pancia” dell’elettorato fosse in ebollizione era evidente e sicuramente a conoscenza del quartier generale democratico, ma la candidata non è stata in grado di parlare a quelle persone e ha prevalso la voglia di cambiamento, la voglia di far pulizia a Washington che periodicamente ritorna nella storia americana. Servivano strumenti qualitativi e non solamente quantitativi.

E pensare che il giorno prima, parlando con un collega di un’altra università, avevo citato il caso Kerry come esempio di abbaglio generale e per un attimo mi si era accesa una lampadina. Poi ho pensato alla miriade di sondaggi, ai modelli matematici, ai big data e ho messo da parte l’intuizione. Ho sbagliato, avrei dovuto dar ascolto all’intuito. Mea culpa.

I big data stanno cambiando le campagne elettorali ed anche la comunicazione delle aziende, ma non possono sostituire intuito e capacità di analisi qualitativa: segnali deboli e small data sono altrettanto importanti. Questa, dal lato della comunicazione e del marketing, è per me la vera lezione delle elezioni statunitensi.