Aula montecitorio

Il 24 ottobre il Movimento 5 Stelle ha presentato alla Camera il progetto di legge dal titolo “Modifiche alla legge 31 ottobre 1965, n. 1261, concernenti il trattamento economico e previdenziale spettante ai membri del Parlamento”: è la famosa proposta di dimezzare lo stipendio ai parlamentari – passando, a grandi linee, da 5.000 a 2.500 euro netti al mese. Il testo arriva in Aula senza mandato al relatore e senza votazione sugli emendamenti, per cui si sa da subito che verrà rimandato in Commissione e che i grillini avranno dunque vita facile nel montare una protesta d’ordinanza contro l’autoreferenzialità del Parlamento, che affossa la loro rivoluzionaria e disinteressata proposta. Puntualmente accadono entrambe le cose, e si procede con l’usuale pantomima.

Il provvedimento è uno dei cavalli di battaglia della storia del M5S, che nasce sull’onda lunga dell’ormai iconografico libro di Rizzo e Stella “La Casta”, Vangelo dell’indignazione prêt-à-porter: è un’aggressione facile a un problema difficile – quello dei costi della politica – che in quanto tale è di forte impatto comunicativo ma di nessuna utilità reale. Ma a Grillo questo non interessa, e fieramente si appunta al petto la spilla del risparmio previsto di ben 87 milioni l’anno. Che su circa 830 miliardi di spesa pubblica annuale, si aggira intorno allo 0,01%. Soddisfazioni, non c’è che dire, una misura urgente di grande impatto sulla vita del Paese.

Il problema drammatico è che questa ondata di demagogia è endemicamente pervasiva: Renzi non può far altro che rilanciare, spostando l’attenzione dal numero scritto in busta paga a quello delle presenze in Parlamento, volendo legare a questo lo “stipendio” dei parlamentari. E questa è naturalmente un’altra sciocchezza, perché pensare che la qualità dell’azione politica di un parlamentare passi solo dalla percentuale delle sue fisiche presenze in aula è quantomeno un po’ naïve. Ma tant’è, perché la degradazione del dibattito pubblico a cui ha portato il grillismo è questa, e bisogna farci i conti. L’opposizione del M5S, invece di essere costruttiva nel senso del contributo al miglioramento della qualità delle politiche di governo, diventa distruttiva rispetto alla qualità del dibattito pubblico e alla seria incisività delle proposte.

Un esempio di questo pantano retorico è sotto gli occhi di tutti in questi giorni, nel balletto dei numeri che si sta facendo intorno ai risparmi della riforma. La trasformazione del Senato, com’è noto, porterà al famoso “taglio delle poltrone” di 215 senatori. Questo, più altre valutazioni come l’abolizione del CNEL e la soppressione delle province, porterebbe a un risparmio complessivo di circa 500 milioni di euro. Il fronte del No sostiene che l’unica cifra realmente contabilizzata dalla ragioneria dello Stato siano in realtà 50 milioni. Ecco, pensare di concentrare la discussione su una riforma costituzionale – che nasce con ben altri e più importanti obiettivi – intorno a queste cifre è svilente per il progetto in sé, e dà la misura proprio di quella degradazione della qualità del dibattito di cui sopra.

Anche perché, ad essere pignoli, l’entità dei risparmi che seguono alla riforma potrebbe essere superiore, grazie alle modifiche del Titolo V. Giusto per citare un esempio, il nuovo collegamento elettrico tra Sicilia e Calabria comporterà una riduzione di 600 milioni di euro all’anno per il sistema elettrico italiano. Se non fosse che, per realizzarlo, ci sono voluti 10 anni di continui rimandi autorizzativi e tira e molla burocratici per via delle rispettive competenze regionali in materia energetica – che verrebbero abolite con la riforma. Ma spiegare queste cose, con le loro perniciose tecnicalità, è più complicato di gridare sguaiatamente al taglio degli stipendi. Anche se non cambia la sostanza: a costare, spesso e volentieri, non sono i politici. È la politica.