Berlusconi Prodi 1996

Oggi ricorre un ventennale molto importante. Lo si celebrerà soprattutto nel campo del centrosinistra, ma in verità farebbe bene (anche) al centrodestra tornare con la memoria al 21 aprile 1996.

Perché, se quel giorno da un lato segna la storica vittoria de L’Ulivo di Romano Prodi, che dimostrò la non imbattibilità di Berlusconi, dall’altro ci ricorda (tristemente?) come il polo liberale-popolare-conservatore (nell’accezione inglese, e quindi positiva, del termine) fu ad un passo dal centrare la vittoria nella sua forma più pura, coerente e bilanciata.

Facciamo un passo indietro di circa 25 mesi: il 27-28 marzo 1994, Silvio Berlusconi vince le elezioni. Lo fa con un’alleanza asimmetrica, che permetta agli alleati del partito da lui fondato qualche tempo prima, Forza Italia, di stare al suo fianco senza essere – tecnicamente – legati tra loro.

Lega Nord e Movimento Sociale Italiano (si chiamava ancora così, sebbene alle elezioni si sia presentato come “Alleanza Nazionale”: inizialmente quello è, di fatto, solo un cartello elettorale, e la AN partito nascerà l’anno dopo a Fiuggi) a quel tempo erano decisamente agli antipodi, e le bordate che si scambiavano i rispettivi leader, Umberto Bossi e Gianfranco Fini, rendevano impossibile creare un polo nazionale che mettesse insieme azzurri, lumbard e missini (oltre che altri alleati “minori” come il CCD casiniano e alcune realtà nate dalla diaspora liberale, come l’Unione di Centro di Costa e Biondi, o il “Polo Liberal Democratico” dell’imprenditore Adriano Teso, che ha poi negli anni sostenuto la nascita di diversi “pensatoi” liberali, a cominciare dall’Istituto Bruno Leoni).

Ecco quindi il “tecnicismo” dei due poli: Nell’Italia del Nord quello “delle Libertà” che, nel maggioritario, vede la presentazione di candidati comuni forzisti e leghisti, mentre i missini fanno corsa a sé. Nel Centro Sud, il “Polo del Buon Governo”, che mette insieme “azzurri” e “neri”.

Scelta astuta e, soprattutto, vincente: il centrodestra a doppio binario conquista la maggioranza alla Camera e la sfiora al Senato (dove arriverà il soccorso di alcuni eletti con il rassemblement centrista), spedendo l’allora Cavaliere a Palazzo Chigi. L’idillio, però, dura poco: Bossi, dopo mesi di fibrillazioni e dispettucci, fa cadere il Governo in accordo con le opposizioni (il famigerato “patto delle sardine"), dando poi il via libera ad un esecutivo tecnico guidato da Lamberto Dini, ministro del Tesoro uscente.

Andato in crisi anche questo Governo, e fallito il tentativo di dar vita ad un altro gabinetto “del presidente” con Antonio Maccanico alla guida, ecco le inevitabili urne.

Il risentimento verso Bossi (il quale, nel frattempo, dopo lo scambio di amorosi sensi col centrosinistra, connota il suo partito come equidistante e antisistema, lanciandolo pochi mesi dopo verso la causa dell’indipendenza padana) pregiudica qualsiasi ipotesi di accordo-bis con la Lega Nord, e un nuovo e più omogeneo centrodestra si struttura in un’alleanza unica e valida per tutto il territorio nazionale: nasce il “Polo per le Libertà”.

Forza Italia, Alleanza Nazionale, CCD e CDU (con un accordo “tecnico” siglato con la “Lista Pannella-Sgarbi”) danno vita ad un’aggregazione che, nonostante il boom della Lega in solitaria (oltre il 10%), sfonda comunque il muro del 40% sia per quanto riguarda il computo complessivo nel maggioritario, sia per il voto proporzionale, dove addirittura (Radicali compresi) si arriva al 44%.

Nei singoli collegi, tuttavia, prevalgono in maggioranza i candidati ulivisti (forti anche dell’accordo di “desistenza” con Rifondazione Comunista), e la guida del Paese la conquista il centrosinistra, seppur sul filo di lana.

Un peccato, per coloro che auspicavano (e auspicano ancora oggi) un centrodestra - unico, unitario o di coalizione cambia relativamente poco, rispetto all’obiettivo principale - che potesse somigliare in maniera credibile ai gollisti francesi, ai tories britannici, fino ad arrivare ai repubblicani d’Oltreoceano, passando dal popolarismo liberale del PP spagnolo, ma anche per quello più tradizionale della CDU tedesca.

Obiettivo che era facilmente a portata di mano, se si analizzano gli elementi che andavano a comporre il “cocktail-Polo”, dalla destra finalmente post-fascista e “di governo” nata dopo la “svolta di Fiuggi” dell’anno prima, passando per i centristi “non-dossettiani”, per arrivare soprattutto alla Forza Italia “dei professori”.

Filosofi del pensiero liberale, economisti, giuristi, storici che si aggiungono a quelli al fianco di Berlusconi fin dalla fondazione di Forza Italia, come Giuliano Urbani e Antonio Martino, e che cercarono – purtroppo inutilmente, come la Storia ci ha dimostrato – di dare delle basi intellettual-culturali a quello che poteva e doveva essere il futuro partito del centrodestra italiano.

Quando Berlusconi decise che oramai il PdL aveva esaurito la sua spinta propulsiva, e che era giunto il momento di rispolverare la vecchia “insegna” forzista, diversi furono i richiami e gli auspici ad un ritorno allo “spirito del ‘94”, richiamando tanto l’entusiasmo degli esordi, quanto quell’idea di forma-partito, movimentista e orientata al modello statunitense, perduti entrambi nell’evoluzione da “DC 2.0” impressa dall’ex Cavaliere a cavallo tra Secondo e Terzo Millennio.

Sarebbe però il caso di rinverdire un altro “spirito”, quello del ’96, per chi vuole sperare che torni il momento di un centrodestra non becero-lepenista, come quello del duo Salvini-Meloni, né italo-sudamericano, proprio dell’ultimo Berlusconi (diciamo dal “predellino” in poi). Ma questo spirito si può rinverdire oggi, vent’anni dopo? Quel tipo di centrodestra è ancora realizzabile?

Intanto è chiaro che i vent'anni trascorsi hanno cambiato in modo profondo le coordinate culturali e politiche della destra euro-occidentale, e non solo di quella italiana. Non si tratta di tornare a quelle origini e a quelle formule, come se fosse possibile cancellare il tempo trascorso, ma di tornare, mutatis mutandis, all'idea di un centro-destra "normale", affrancato dalle derive demagogico-protestatarie e sopratutto ancorato ai suoi valori davvero "tradizionali" (rigore finanziario, libertà economica, vocazione atlantica e occidentale), che il fu centro-destra ha invece rinnegato per rifugiarsi in illusioni storicamente di sinistra: anti-americane, anti-globaliste, anti-capitaliste.

Chi scrive è convinto che questa possibilità esista, anche se è consapevole che le condizioni non sono esattamente le migliori.

Ci sono però due fattori che fanno sperare in un ritorno alla ragione. Uno è la galassia di forze “fresche”, anagraficamente e/o mentalmente, impegnate in prima linea proprio per ripensare il centrodestra. Si tratta sia di realtà prettamente politico-partitiche, sia (soprattutto) di realtà culturali, non spaventate dall’idea di sporcarsi le mani, nel senso nobile del termine. Sono gruppi che non rilevano nei sondaggi, ma la cui stessa esistenza è un indice della natura fortunatamente "non totalitaria" dell'egemonia lepenista in Italia.

Vi sono i “Conservatori e Riformisti” di Raffaele Fitto e Daniele Capezzone, sostenitori di un centrodestra che si ispiri a quello britannico targato Cameron. Vi sono anche alcuni settori “moderati” di Forza Italia, riluttanti a schierarsi in posizione gregaria o subalterna a Salvini e Meloni. Si pensi a alcune figure come quelle di Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento Europeo, o di Paolo Romani, capogruppo al Senato degli “azzurri”. Il primo, romano e quindi molto attento alle vicende della Capitale, era stato tra i primissimi a sostenere l’opzione Alfio Marchini per le Comunali, prima che gli alleati del Cav. imponessero un'altra linea. Il secondo, invece, si è ben guardato dal seguire il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, sui referendum no-triv in mera funzione anti-renziana.

Non vanno poi dimenticate tutte quelle realtà che si rifanno in maniera più marcata al PPE: NCD/Area Popolare, i “Popolari per l’Italia” di Mario Mauro, IDeA di Gaetano Quagliariello (attivo anche nel campo culturale con la Fondazione Magna Carta), ecc. Si potrebbero aggiungere anche Corrado Passera e la sua “Italia Unica”, senza dimenticare poi le diverse realtà civiche o a connotazione territoriale sparse lungo tutto lo Stivale.

Per quanto concerne, invece, le iniziative più legate alla formulazione di una base teorico-ideale, ma non per questo limitate al pensiero o disinteressate all’azione, è d’obbligo citare l’impegno di una nidiata di giovani, che animano fondazioni, associazioni, reti, network, ecc. Da Lorenzo Castellani, attuale direttore scientifico della Fondazione Einaudi e ideatore di “Sveglia Centrodestra!” ai vari Gabriele Pegolo, Davide Burani, Antonello Mastino e agli altri ragazzi de “La Cosa Blu”.

La fine della leadership di Berlusconi ha disordinato il campo del centro-destra italiano, che si è radicalizzato ideologicamente, ma si è drammaticamente ristretto dal punto di vista elettorale. Salvini e Meloni possono vincere solo in un centro-destra condannato a perdere, anzi neppure a giocare la partita per il governo. Un nuovo centro-destra non c'è ancora, ma, per chi ritiene che valga la pena costruirlo, il problema del "confine a destra" (quello posto dai post-gollisti contro il FN, dai Tories contro l'Ukip, dalla Merkel contro Alternativa per la Germania) è comunque ineludibile, proprio per tornare a essere competitivi. E proprio in questo torna utile la lezione del '96.