Casaleggio, il broker dell'alienazione politica
Istituzioni ed economia
Casaleggio ha riciclato il luddismo millenarista di un incazzato cronico che distruggeva a martellate i computer "per guardarci dentro" e l'ha trasformato nel fenomeno più straordinario del baraccone politico digitale. Ha compreso (prima di altri, è il caso di dire) che il "voto contro" in un'Italia perdente e impoverita avrebbe per anni dominato la politica, fino a surrogarla, trasformando la democrazia in una fiera dei miracoli e in un pozzo senza fondo di frustrazioni e di desideri. Ha intuito che la crisi della rappresentanza avrebbe reso più urgente il bisogno di auto-rappresentazione politica e che il sistema della comunicazione globale avrebbe favorito processi di disintermediazione e di radicalizzazione di massa. Come ogni imprenditore di successo - e Casaleggio, al di là del fatturato, indubbiamente lo è stato - dove c'era un grande problema ha visto un'enorme opportunità.
Ha quindi congegnato una macchina straordinaria di persuasione e di condizionamento, facendo di un partito di grado zero, cioè di un contenitore programmaticamente vuoto, il ricettacolo di ogni possibile contenuto negativo - di ogni No!, di ogni Basta!, di ogni Vaffanculo! - e quindi di un consenso potenzialmente maggioritario, proprio perché anonimo e affrancato da obblighi di coerenza o di responsabilità. Più che un uomo di comunicazione è stato un broker dell'alienazione politica. Il voto per il Movimento ha redento milioni di italiani dalla colpa di avere trafficato con il Palazzo e magari di averci creduto, restituendoli a un'innocenza "originaria" e quindi ancora più incattivita e nichilistica e offrendo loro lo strumento servibile e universale di un partito, che non è un partito, ma un ostello di angosce e risentimenti e un crisma di indiscutibile purezza.
Dove Grillo metteva la faccia, lui metteva la testa e le mani, facendo innanzitutto attenzione a che il progetto non si snaturasse, ma si replicasse, in ogni sua manifestazione, perfettamente identico a se stesso. È stato perciò il più risoluto oppositore dell'istituzionalizzazione e della normalizzazione dei Cinque Stelle, convinto - a ragione, dal proprio punto di vista - che i grillini non dovessero fare politica, ma continuare a disfarla, e a non inciampare nelle contraddizioni (e nei fallimenti) del governo per continuare a spacciare la patacca dell'auto-governo planetario, della click-democracy e della volontà generale distillata dagli algoritmi delle piattaforme web, tra poche migliaia di iscritti selezionati, ma riconosciuta e plebiscitata da milioni di elettori e destinata, secondo la profezia, a diventare totalitaria quando "i cittadini diventeranno Stato", e l'intera società sarà guarita dalla malattia della politica e della falsa democrazia dei parlamenti.
Il paradosso - che paradosso non è - è che tutta questa futurologia è stata pensata e protetta da due casseforti decisamente old style, rappresentate da un partito proprietario, di cui Grillo è giuridicamente padrone e da un'azienda familiare, fornitrice unica di idee, contenuti e "autorizzazioni" ai portavoce del movimento (parlamentari e eletti locali), che passerà, semplicemente, da Casaleggio padre a Casaleggio figlio. Un sistema elementare e arcaico, che oggi, venuto meno il perno su cui quasi tutto poggiava, affronterà una crisi di transizione, ma non sembra destinato a mutare i caratteri di fondo, né ovviamente a "democratizzarsi" secondo canoni tradizionali.