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Gli attentati che hanno insanguinato Parigi rappresentano indubbiamente una grave ferita per la Francia e per l’intero Occidente. Di fronte alla violenza bestiale del terrorismo jihadista, non stupisce che cresca in Europa la richiesta di una risposta su larga sala, per “farla pagare” agli islamisti dell’ISIS e per prevenire nuovi attentati. Nemmeno stupisce che il presidente francese François Hollande abbia già disposto alcune azioni di rappresaglia militare nei confronti dello Stato Islamico ed abbia richiesto il sostegno dell’Unione Europea.

La prospettiva di una grande operazione militare multinazionale contro Daesh, che in questi giorni in Italia pare sostenuta in particolare da Forza Italia e dalla Lega, appare tuttavia molto fumosa. Nei fatti, rispetto a quanto è avvenuto in passato oggi non sembra che ci siano le condizioni per una regìa internazionale che operi sulla base di idee ed obiettivi chiari.

Duranti gli anni di George W. Bush e di Tony Blair dietro la strategia dell’interventismo militare c’era per lo meno una “visione”; c’era una linea guida ideale, quella dell’esportazione della democrazia; c’era una certa teoria delle relazioni causa-effetto; e c’era anche una prefigurazione di quello che avrebbe dovuto essere il “dopo”. Poi, certo, ci sono pochi dubbi che la visione neoconservatrice che ha ispirato le azioni militari in Afghanistan ed in Iraq si sia rivelata sostanzialmente sbagliata. Da un lato era ispirata ad una concezione schematica e semplificata dello scenario medio-orientale, con l’identificazione di un numero circoscritto di nemici, il cui abbattimento avrebbe restituito alla regione pace e stabilità; dall'altro fu eccessivamente condizionata dall’immaginario dell’89, da quell’illusorio parallelo con l’Est Europa che fece ritenere che anche in Medio Oriente vi fossero popoli che non attendessero altro se non di essere liberati per dotarsi di un modello istituzionale e culturale di tipo occidentale.
 In ogni caso, quando si decise di imbarcarsi in quelle campagne, per lo meno da qualche tipo di analisi si partiva.

Un percorso interventista oggi sarebbe avviato, invece, senza nessuna particolare visione, in uno scenario che non è in alcun modo possibile ricondurre a polarità ed affiliazioni conosciute e riconoscibili. Nel medio-oriente attuale, governi liberticidi si ritrovano, quasi sempre, opposizioni ancora peggiori, al punto che per l'Occidente è molto difficile poter individuare alleati, a maggior ragione alleati stabili, cioè che lo restino anche dopo aver beneficiato del vantaggio immediato di un eventuale appoggio.

Con il totale fallimento delle aspettative generate dalla “primavera araba” si mostra ormai in modo sempre più conclamato l’incapacità dei nostri governi di leggere la situazione medio-orientale e di prevedere gli esiti effettivi di qualsiasi ingerenza. Nell'era Obama ormai non si è nemmeno ben capito se, nel caso, sia meglio intervenire contro Assad o a suo favore e si distribuisce disinvoltamente il ruolo di interlocutore “moderato” a paesi che da sempre sono stati considerati centrali del terrorismo internazionale.
 La situazione in cui versano il nord-Africa ed il vicino-oriente è così complessa che una nuova guerra a questo punto sarebbe iniziata sostanzialmente “a caso”. 

Un’ingerenza militare così come viene invocata da ambienti “liberal”, in nome dei diritti umani, e da una parte della destra, come risposta al terrorismo, avrebbe effetti totalmente imprevedibili ed incontrollabili sia per il mondo arabo che per l’Europa. Se da un lato non ci sarebbe nessuna garanzia sulla qualità e dell’affidabilità delle fazioni che si trovassero a beneficiare dell’intervento occidentale, dall’altro le tribù e le etnie che uscissero perdenti dal nuovo equilibrio sarebbero la fucina di un estremismo e di un terrorismo sempre più pericoloso nei confronti dei nostri paesi. Nei fatti, l’ingresso in guerra di una coalizione in ambito europeo o in ambito NATO non servirebbe se non a dar l’illusione di “star facendo qualcosa” e di conseguenza risponderebbe esclusivamente a logiche di politica interna di breve periodo. I governi (e le opposizioni), fondamentalmente, hanno bisogno di dare ai cittadini la sensazione di “essere sul pezzo”, di rispondere nell’immediato alla pancia del paese, anche se le azioni intraprese si dovessero rivelare inutili o controproducenti rispetto all’effettiva soluzione dei problemi.

L'approccio “reattivo” ha naturalmente un fascino innegabile, ma una gestione seria della minaccia rappresentata dal terrorismo oggi non si realizza cavalcando le emozioni, bensì attraverso un diverso approccio strutturale a tutta una serie di questioni di background e di lungo periodo. Occorre accettare, da questo punto di vista, che l’obiettivo non può essere, in termini assoluti, quello di evitare il prossimo attentato, perché qualunque folle potrebbe effettuarlo dovunque ed in qualsiasi momento e ben poco può essere fatto per prevenirlo con certezza nello specifico, salvo instaurare uno stato di polizia di stampo sovietico di cui saremmo tutti vittime. Chiunque sostenga che si possa con certezza prevenire il prossimo attentato, purché naturalmente gli sia confermato o conferito il potere, è credibile come chi sostenga che si possa prevenire il prossimo omicidio o il prossimo furto con scasso.
 Quello che, invece, si può e che si deve fare è agire sulle condizioni ambientali che rendono i nostri territori più o meno “ospitali” rispetto al prendere piede di ideologie e di gruppi estremisti.

La difesa nell’Occidente non la si può fare in Siria o in Iraq; in buona sostanza la si deve fare qui da noi. Quello che serve in primo luogo è una difesa morale e culturale del nostro modello di civiltà, rifiutando cedimenti simbolici e sostanziali alle ragioni del politicamente corretto. Non è pensabile, ad esempio, rinunciare a determinati aspetti della nostra cultura e delle nostre tradizioni per rispetto della sensibilità di chi da fuori sceglie di venire a vivere in Italia, quando invece nessuno si è mai sognato di farlo per rispetto a minoranze pacifiche ed autoctone, da sempre parti del nostro tessuto nazionale, quali la comunità ebraica.

C’è bisogno, poi, di una riforma in senso restrittivo delle regole sull’immigrazione e delle regole sulla cittadinanza, selezionando rigorosamente chi entra, anche sulla base di elementi di compatibilità culturale. Non si tratta, chiaramente, di “chiudere le frontiere”, bensì di privilegiare un’immigrazione di qualità che vada effettivamente incontro alle esigenze del nostro mercato del lavoro. L’esperienza di altri paesi europei ci mette in guardia sul fatto che la combinazione di stato sociale e cittadinanza facile genera lo scollamento di interi gruppi sociali e, spesso interi quartieri, dal tessuto sociale e culturale del paese. Sono questi contesti ad essere ovunque in Europea il terreno più fertile per la propaganda islamista. Laddove il welfare solleva dalla necessità di lavorare e quindi di integrarsi, allora c’è il tempo di pensare alla Jihad.

E’ necessario anche vincolare chi arriva in Italia al rispetto del decoro delle nostre città ed in generale delle buone regole di convivenza civile. La prevenzione delle circostanze puntuali di degenerazione estrema, incluso il terrorismo, passa anche da un contrasto silenzioso e costante al degrado quotidiano.

Certo si tratta di una strategia che non ha a che fare con esiti necessariamente immediati - che non godrà degli spazi televisivi che si guadagna l’uccisione di un Osama Bin Laden - ma piuttosto ha a che vedere con il modello di società che immaginiamo per l’Italia e per gli altri paesi occidentali tra cinque, dieci o venti anni. 
E’ una strategia, se vogliamo, più “svizzera” che “americana”, ma che oggi può servire molto di più agli interessi dell’Italia e dell’Europa.