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Le primarie non sono una garanzia di successo o di durata e il PD e il centro-sinistra avrebbero dovuto capirlo ben prima che gli eventi più recenti - le sconfitte a Venezia e in Liguria e il caso-Marino a Roma - dimostrassero che un processo competitivo di selezione dei candidati non accresce di per sé il potenziale elettorale dei prescelti, né li pone, se vittoriosi, al riparo dagli incidenti di percorso politico-giudiziari in cui rischia di incappare (colpevole o no) chiunque eserciti ruoli di governo, sul piano nazionale o locale.

La mitologia delle primarie come arma taumaturgica e crisma della politica vincente è ampiamente smentita dalla realtà dei fatti. Le stesse caratteristiche di questa competizione sono state, in buona o cattiva fede, equivocate, come se le primarie rappresentassero la garanzia dell'evoluzione post-partitica del gioco elettorale e della sconfitta della "Casta" attraverso il protagonismo diretto della cosiddetta società civile.

Le primarie - e in particolare quelle locali - non sono niente di tutto questo. Nei casi più fortunati, sono state una forma di modernizzazione e di (relativa) democratizzazione della dialettica e dell'organizzazione interne ai partiti e alle coalizioni, ma non di superamento dei modelli tradizionali di competizione politica.

A dimostrarlo è indirettamente anche il fatto che le primarie hanno riguardato in questo decennio un solo campo politico, quello della sinistra, proprio perché, lungi dal soppiantare i partiti (o le coalizioni) come intermediari del gioco elettorale, tendono ad adattarsi alle loro caratteristiche. Ci sono partiti senza primarie, ma non ci possono essere primarie senza partiti. Partiti o coalizioni in rotta trasformano le primarie in un appuntamento meramente burocratico, quando non divisivo e demotivante. Partiti e coalizioni politicamente coesi riescono invece a usarle come volano di consenso e fattore di unità.

A votare per le primarie, inoltre, non va la società civile, ma un elettorato fieramente "appartenente" e comunque politicizzato, che può anche riservare inaspettate sorprese (come accadde a Milano, Genova e Cagliari nel 2011 o con Vendola in Puglia nel 2005) e spingere al rinnovamento i partiti, ma non dall'esterno.

Nella storia italiana, le primarie nazionali - sia di coalizione che di partito - sono state procedure di legittimazione e ratifica, ma non di selezione delle leadership, che ben prima delle primarie potevano contare su una sostanziale e indiscussa investitura. Prodi, Veltroni, Bersani e Renzi non sono "usciti" dalle primarie. Nessuno ragionevolmente poteva presumere che perdessero le primarie nazionali che li hanno visti vincitori. Anche nella competizione più aperta (quella per la guida della coalizione di centro-sinistra nel 2012, tra Bersani e Renzi), l'alta competitività dello scontro era più legata alla natura radicale e politicamente "eversiva" della proposta renziana rispetto al mainstream di centro-sinistra, che alle sue obiettive possibilità di successo.

Le primarie più battagliate sono state proprio quelle locali. Ma sono state anche le più "sporche" e infiltrate e le meno mediatiche. In queste primarie - con eccezioni, certo, che tali però rimangono - hanno funzionato soprattutto dinamiche analoghe a quelle del voto di preferenza, non i grandi temi del dibattito politico-culturale. E hanno pesato in maniera determinante le reti di relazione, insediamento e potere locale. Dove i favoriti hanno perso, ciò è spesso avvenuto per diserzioni e rotture nel loro campo, più che per l'espansione inaspettata di quello avverso.

Oggi, a trattenere Renzi dal fare saltare il tavolo delle primarie per le città che andranno al voto la prossima primavera non è un'affezione ideale all'istituto, né il timore di contraddire la retorica profusa a piene mani, prima di conquistare la segreteria del Pd e Palazzo Chigi. La verità è che, se le primarie non sono oggi lo strumento ideale per scegliere il nome del candidato di Roma, Napoli e Milano, tutti gli altri rischiano di essere peggiori.

L'Italicum e la leadership del premier fanno del PD un partito potenzialmente auto-sufficiente sul piano nazionale, ma non sul piano locale. Se saltano le primarie, saltano le coalizioni necessarie per affrontare elezioni tutt'altro che facili o scontate, i cui esiti, in particolare se negativi, finiranno per apparire un giudizio sull'operato del governo. Visto che non può vincere da solo, Renzi non vuole rischiare di perdere da solo. Per questo tiene ferme le primarie, ma come male minore.