L’intifada punta all’Europa. Ebrei e cristiani nello stesso mirino
Istituzioni ed economia
È iniziata la terza intifada e ancora una volta l’Europa sembra non accorgersene. Dopo il discorso di Abu Mazen all’Onu in cui il leader palestinese ha dichiarato di non sentirsi più legato agli accordi di Oslo è cominciata infatti, con coincidenza imbarazzante, la serie di attentati palestinesi contro cittadini israeliani. Dopo i sassi e i kamikaze questa volta sono i coltelli a diventare protagonisti. È facile reperirli e colpire passando inosservati.
Questa volta però la situazione è diversa e pure peggiore che nel passato. A cambiare rispetto alle due ondate precedenti è il contesto geopolitico, dominato dal radicalismo islamista e da una strategia programmaticamente anti-occidentale e non solo anti-israeliana. Non si può ancora una volta cadere nel tranello ideologico nazionalista e ostinarsi a identificare la causa di questa intifada nel conflitto israelo-palestinese, pur di non ammettere il legame intrinseco che lega il terrorismo palestinese e quello internazionale.
Non è affatto Israele la causa dell’instabilità ed esplosività del Medioriente. Quelle che ricadono sui “sionisti” di Israele e sui “crociati” europei minacciati dalla furia jihadista sono le conseguenze di una guerra civile intra-islamica. Isis, Al Qaeda e gli sciiti legati all’Iran hanno scelto di aumentare il livello dello scontro per affermare, gli uni contro gli altri, la propria supremazia. La ricerca del consenso passa dall’esibizione della forza militare, con azioni sempre più eclatanti.
Gli attentati in Europa non sono stati un’incidente o una semplice parentesi in un periodo di pace: per questo è indispensabile comprendere come l’intifada sia parte di un disegno più ampio. Il terrorismo palestinese non è estraneo al radicalizzarsi di forze che puntano con decisione all’Europa e che tenteranno nei prossimi mesi di colpirla ancora.
Non è neppure questa la sola ragione di preoccupazione; a doverci spaventare non è solo il rischio che gli attentatori possano ripetere anche nelle strade italiane le scene viste per le strade israeliane. Il problema principale è che un atteggiamento, se non assolutorio, perlomeno comprensivo nei confronti della violenza palestinese costituisce un incentivo implicito all’upgrade terrorista. Se bisogna capire le pietre, perché non bisognerebbe capire i coltelli?
La sola differenza tra Abu Mazen e Hamas è quella delle parti recitate in commedia. C’è chi fa il poliziotto buono, chi quello cattivo, ma non si ricorda a memoria un solo leader palestinese che si sia impegnato concretamente per la pace. Israele non è esente da errori, porta sulle spalle le proprie responsabilità e non mi sembra che ci siano problemi nella politica europea e italiana a sottolinearli - o a ingigantirli, fino a deformarli. Rispetto alla leadership palestinese presunta “buona” non servirebbe neppure questo accanimento, basterebbe un po’ di onesta chiarezza.
Il diritto di esistere dello stato palestinese non esiste a prescindere da tutto e non può essere, neppure retoricamente, presupposto a tutto. Con un Medio Oriente in fiamme, in preda ai deliri dell’Islam fondamentalista, non solo Israele, ma neppure l’Europa può permettersi di autorizzare un altro avamposto del terrore.
Per questo, se vogliamo affidarci ad una prospettiva di lungo periodo, l’unica strada per arrivare alla pace è quella di smettere di assolvere i palestinesi dalle loro responsabilità. Se vogliono che l’Europa si adoperi affinché uno Stato palestinese nasca, pongano le fondamenta per uno Stato libero, democratico e laico. Altrimenti il rischio è che sia la stessa Europa a creare un problema, che prima o poi dovrà affrontare e che non sarà più in grado di risolvere.