Abenomics grande

Come sta l'Abenomics? Guardando gli ultimi dati, non tanto bene. E se non fosse stato per la riconferma di Abe alla guida del partito, evento che ha richiamato l'attenzione dei media internazionali sulla politica e sull'economia giapponese, la sua sofferenza sarebbe proseguita nel silenzio. Fino a non molto tempo fa era plaudita anche dall'intelligentsia burocratica e statalista nostrana, come esempio da seguire per risolvere i mali italiani ed europei. Poi, gli eventi degli ultimi mesi l'hanno spinta sempre più ai margini. Oggi in pochi parlano dell'Abenomics. Non è più di moda.

Abe, però, ci crede ancora, o almeno, ha bisogno che i suoi concittadini continuino a crederci. Per garantirsi la piena e solida riconferma alla guida del paese, ha messo in scena il rilancio della sua creatura. Ha promesso ulteriori stimoli fiscali, riduzioni di imposte sulle società e un rafforzamento del quantitative easing (QE), con il pieno appoggio della banca centrale del Giappone (BOJ).

I mercati finanziari hanno subito brindato all'annuncio. L'indice Nikkei ha guadagnato più del 7,7 per cento in una sola seduta la settimana scorsa. È stata la migliore performance registrata dalla fine del 2008. Tanto da far credere a molti che la piazza finanziaria di Tokyo potesse essere, addirittura, immune dalle nuove turbolenze finanziarie che arrivano dalla Cina.

Ma l'euforia di un giorno conta poco. È, semmai, solo la conferma che i mercati finanziari in questo momento storico sono quanto di più inaffidabile come indicatori dello stato di salute e delle prospettive di un paese. La cruda verità dell'economia reale ci racconta una storia diversa: la ricetta di Abe, basata su stimoli fiscali e stampa di moneta, per il momento ha prodotto risultati deludenti. L'iniezione di fiducia che ne doveva venire per le famiglie e i consumatori giapponesi non c'è stata. E il paese è ancora intrappolato in una stagnazione ormai ventennale.

Annunciare il rilancio non serve a niente. Attuarlo servirà a poco. È improbabile che a questo punto le cose possano cambiare. Lo scenario economico dell'Asia, alla luce del rallentamento cinese e di una probabile svolta nella politica valutaria di Pechino, ora è decisamente più problematico per la vecchia industria esportatrice giapponese.

E, in effetti, i dati di una settimana fa parlano chiaro. Nel secondo trimestre 2015 il PIL si è ridotto dello 0,4 per cento rispetto ai primi tre mesi dell'anno. I consumi interni, senza un vero recupero della fiducia da parte delle famiglie, hanno perso lo 0,8 per cento. Le esportazioni nette, a loro volta, sono diminuite dello 0,3 per cento. A prima vista sembrano pochi decimali, però è un risultato pessimo, se si aggiunge a tutto ciò il fatto che negli ultimi tre anni lo yen si è svalutato di circa il 35 per cento.

I risultati del secondo trimestre, dunque, allontanano l'obiettivo di crescita che il governo aveva posto all’1,5 per cento nella media di quest'anno. La crisi finanziaria e il rallentamento dell'economia cinese potrebbero rappresentare un brutto colpo per una economia oggi ancora dipendente dall'export nel resto dell'Asia.

Le cose non vanno certo meglio sul fronte dell'inflazione – o forse sarebbe meglio dire “della deflazione”. I prezzi hanno rallentato a luglio. Al netto degli effetti prodotti dalle imposte sui consumi, aumentate lo scorso anno, i prezzi al dettaglio sono addirittura scesi, e ancora di più i prezzi all'ingrosso. Questo in buona parte è conseguenza della caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime. E ciò a sottolineare che, anche sul fronte della lotta alla deflazione, il quadro internazionale ora aggiunge nuovi problemi ai vecchi.

Ormai il target di inflazione al 2 per cento, già una volta rinviato al settembre 2016, dovrà essere rinviato ancora. Forse a dopo il 2017. Persino il nobel Krugman, da sempre sostenitore della politica neo-keynesiana di Abe, nei giorni scorsi ha dovuto ammettere le difficoltà dell'Abenomics e la possibilità che questo “esperimento” fallisca.

Il rallentamento cinese e la svalutazione dello yuan, che stanno penalizzando l'export giapponese, o anche la frenata dei consumi interni, che peraltro non era del tutto inaspettata, non sono né l'unico né il principale ostacolo all'eventuale (se pur ormai remoto) successo dell'Abenomics. Perché a essere sbagliata è proprio la ricetta di politica economica.

La svalutazione dello yen, che, a conti fatti, rappresenta il pilastro fondamentale dell'Abenomics è una strategia sostanzialmente “conservativa”. Mira alla conservazione dell'esistente. Al salvataggio dei “posti di lavoro” esistenti. Quelli dei grandi esportatori tradizionali giapponesi. Il Governo e la BOJ, finora, hanno puntato sulla svalutazione dello yen affinché migliorasse i bilanci e i profitti delle grandi imprese del manifatturiero tradizionale, convinti che poi le imprese avrebbero aumentato i salari e gli stipendi, che a loro volto avrebbero fatto ripartire i consumi. Ma niente di tutto questo è accaduto, o comunque non nella misura attesa dal governo.

I profitti delle imprese sono cresciuti, anche le loro quotazioni di borsa sono aumentate. Ma i salari hanno continuato a stagnare, e i consumi, come si vede anche dagli ultimi dati, continuano a stagnare a loro volta. Alla fine, anche l'Abenomics - e il QE giapponese, che ne è parte fondamentale - si è rivelata una strategia funzionale alla finanza e ai mercati finanziari.

Gli stimoli fiscali e la politica monetaria ultra-espansiva non convenzionale non sono funzionali all'economia reale, che richiederebbe ben altre misure. Misure mirate soprattutto a migliorare l'efficienza del sistema e la produttività. A partire dalla creazione di nuove imprese innovative, necessarie a generare nuovi posti di lavoro “dal basso”, ad allargare finalmente la base occupazionale. È quello che, in fondo, si sarebbe dovuto realizzare attraverso le riforme strutturali. La famosa “terza freccia” dell'Abenomics, che l'arco rotto di Abe non è mai riuscito a scoccare.

Per chiudere, stando a quello che si è visto finora, l'esperienza dell'Abenomics suggerisce che le tradizionali leve macroeconomiche nazionali, la politica fiscale e la politica monetaria, non servono più a niente, se non come palliativi. Non riescono a rilanciare la crescita economica. Possono, tutt’al più, alleviare i sintomi dolorosi di un paese con un’economia in crisi. E in questo modo consentono alla classe politica di fare un po' di clientelismo, utile a superare gli appuntamenti elettorali.

Il deficit spending può fare un po' di lifting all'andamento del PIL, ma niente di più. Poi, puntualmente, l'invito dei governanti è sempre quello di tornare alla finestra, ad osservare il miraggio della “ripresa che arriva”. Noi italiani ne sappiamo qualcosa.