logo editorialeAll'ultimo G20 di Brisbane, il premier Shinzo Abe ha fatto il "convitato di pietra". Il fallimento incombente della sua Abenomics fa del Giappone un chiaro esempio dei limiti e delle conseguenze negative del deficit spending. Ma è stato come se non fosse presente. In modo paradossale, e per certi versi surreale, buona parte dei leader europei ha chiesto a gran voce di poter abbandonare le regole di bilancio e tornare fare spesa pubblica.

Gli economisti continuano a chiamarla "decennio perduto", ma nei fatti la crisi del Giappone dura da oltre vent'anni. I governi che si sono succeduti fino a oggi hanno cercato di curarla a colpi di spesa pubblica e stampa di moneta. Il bilancio dello stato in Giappone aveva un avanzo pari a 2 punti di PIL nel 1991, e un disavanzo pari a 8 punti di PIL nel 2003. Dopo una breve parentesi di risanamento, per rispondere alla recessione internazionale sono stati varati nuovi aumenti di spesa pubblica che hanno riportato rapidamente il deficit sopra il 9 per cento del PIL! Un "ventennio perduto", dunque, nel quale lo stato giapponese ha continuato ininterrottamente a spendere e l'economia ha continuato a stagnare senza mostrare i risultati sperati.

Dopo vent'anni di deficit spending il debito pubblico giapponese è a livelli record, e la scelta più ovvia sarebbe stata quella di riprendere il risanamento finanziario. Shinzo Abe, invece, è diventato primo ministro nel 2012 con un programma di stimoli fiscali, investimenti pubblici in deficit, politica monetaria espansiva e promessa di riforme strutturali. Una ricetta che è stata subito battezzata con il nome di Abenomics.

L'Abenomics è stata venduta come una "svolta" di politica economica. Il mix di "stimoli keynesiani" e riforme strutturali sembrava un vero "uovo di Colombo". Più o meno lo stesso uovo che viene venduto oggi dalla vulgata anti-austerity europea. Ma l'illusione è durata solo pochi mesi: le riforme strutturali, che insieme agli investimenti pubblici avrebbero dovuto favorire la produttività dal "lato offerta", sono rimaste al palo. Si sono rivelate, in Giappone come altrove, l'impegno costantemente annunciato e puntualmente disatteso. Se mi è consentito un pizzico di malignità, credo che nemmeno Abe pensasse veramente di fare dolorose riforme strutturali. Sotto sotto ha sperato che l'economia si riprendesse da sola. Che le riforme non fossero più necessarie. E magari che sarebbe toccato a qualcun altro farle, in futuro.

Così, a due anni dalla sua inaugurazione, l'Abenomics si è rivelata solo una scommessa per il governo giapponese. Una scommessa che gli stimoli fiscali restituissero la fiducia ai consumatori e alle imprese. Una scommessa che il deprezzamento del cambio prodotto dalla politica monetaria espansiva facesse riprendere l'export. Una scommessa che, a quanto pare, è stata persa.

Il deficit spending e i bassissimi tassi di interesse hanno solo tamponato gli effetti della crisi, senza tirare fuori il Giappone dal pantano. Gli ultimi dati confermano il calo continuo del PIL, e le probabili dimissioni di Abe potrebbero scrivere la parola fine sul capitolo dell'Abenomics. Quanti si ostinano a credere che la ricetta fallimentare del Giappone sarebbe utile oggi per l'Europa, tra non molto tempo dovranno voltarsi altrove per provare le capacità salvifiche della spesa pubblica.

Un primo "teorema" su cui si basava l'Abenomics è che l'economia giapponese è in stagnazione per una crisi di fiducia. Che a minare la fiducia dei giapponesi è stato il prolungato periodo di deflazione vissuto dal paese. E che insistere col risanamento finanziario avrebbe aggravato la crisi.

La Banca centrale del Giappone (BOJ, Bank of Japan) nutriva la convinzione che una volta superata la deflazione automaticamente sarebbe tornata la fiducia e anche la crescita. Che gli acquisti dei consumatori sarebbero ripartiti in tromba con l'aumento dei prezzi. Per questo motivo, a fine 2012 annunciò subito di voler raddoppiare la massa monetaria in circolazione e garantì di poter raggiungere il target del 2 per cento di inflazione nel giro di due anni.

Un secondo fondamentale "teorema" dell'Abenomics è che il governo non deve preoccuparsi del debito pubblico, indipendentemente dal suo ammontare e dal rapporto con il PIL. In altri termini, suggerisce il "teorema", la riduzione del debito pubblico non deve essere una priorità, e soprattutto non deve assolutamente ostacolare le fantomatiche "politiche per la crescita". In buona sostanza bisogna avere fiducia sul fatto che il debito pubblico scenderà da sé, dopo, con la crescita dell'economia e dei prezzi.

Ma la storia è stata un po' diversa dagli auspici. La crescita non c'è stata e il debito pubblico è salito alle stelle, con buona pace dei due presupposti teorici dell'Abenomics.

Evidentemente la deflazione non è la causa ma il sintomo della crisi. La mancanza di fiducia non è tanto il portato della deflazione quanto della consapevolezza che il Giappone ha problemi strutturali. Sono le condizioni della finanza pubblica e del debito a influenzare in modo negativo le prospettive degli operatori economici sul futuro dell'economia giapponese. Ed è ridicolo pensare che un debito pubblico superiore al 250 per cento del PIL possa essere ridotto a una specie di falso problema. Pensare di poterlo ridurre facendo ancora più deficit e sperando nella crescita, più che una scelta di politica economica, sembra un azzardo da casinò.

Sta nei fatti che la scommessa sulla ripresa della fiducia è stata persa. Nella seconda metà del 2013 il Giappone sembrava effettivamente uscito dalla deflazione. Ma la domanda interna ha continuato a stagnare. Successivamente, l'aumento dell'aliquota IVA dal 5 all'8 per cento, varato nel timore proprio di una crisi del debito, si è sommato al rincaro dell'energia causato dal deprezzamento dello Yen. L'inflazione si è impennata fino a oltre il 3 per cento. Ma i consumi non sono certo cresciuti come sperava la BOJ. L'improvviso inasprimento fiscale li ha mandati giù in picchiata, deprimendo ancora di più la domanda interna e minacciando una ricaduta nella spirale della deflazione. Infatti pare che, al netto dell'aumento delle imposte e dei prezzi dell'energia, l'inflazione di fondo stia pericolosamente calando di nuovo.

Un aumento dei salari reali avrebbe sicuramente aiutato la ripresa dei consumi. Ma l'andamento deludente della produttività non consente di farli crescere. Nemmeno in prospettiva. Questo è il risultato delle mancate riforme strutturali, che avrebbero dovuto proprio incidere dal "lato offerta" per aumentare la produttività. Ma il ministro dell'economia giapponese ne ha attribuito la responsabilità direttamente alle imprese, e in uno stile che ricorda vagamente l'antica disciplina dei Samurai ha minacciato gravi punizioni contro tutte quelle che non faranno il "proprio dovere". La presa di posizione però ha suscitato solo grande ilarità, rischiando di trasformare l'Abe-nomics in Abe-comics.

Anche la scommessa sul rilancio dell'export è stata persa. Il deprezzamento dello Yen non ha prodotto il miglioramento sperato dell'export netto, e ha inciso poco e niente sulla domanda totale. Questo trova una spiegazione abbastanza ovvia se si pensa che una parte del settore manifatturiero, un tempo "punta di eccellenza" dell'export giapponese (es. auto, elettronica), si è spostato altrove in Asia. Tanto per fare un esempio, nei prossimi anni probabilmente le auto di marca giapponese prodotte fuori del paese supereranno di numero quelle prodotte dagli stabilimenti presenti sul territorio nazionale.

In queste condizioni la svalutazione del cambio non è uno strumento che restituisce competitività. È solo una scorciatoia fuorviante che rende ancora più gravosi i costi dell'energia per le imprese giapponesi in Patria. Peraltro, l'elevato costo dell'energia è uno dei principali fattori che hanno spinto e continuano a spingere verso la de-localizzazione. Per cui la svalutazione del cambio, lungi dall'essere una buona soluzione, ha solo alimentato il circolo vizioso di una strisciante e potenziale deindustrializzazione.

Dinanzi a questa situazione, la risposta dei giapponesi che solo due anni fa plaudivano agli annunci di Abe è chiara. Il consenso politico del premier sta vistosamente calando. Intanto le persone fanno incetta di oro e preziosi. E questo, più di ogni altro dato economico, la dice lunga circa l'esito di una scommessa sulla fiducia chiamata Abenomics. Per l'Europa andrà in scena lo stesso copione?

@amedpan

Abenomics grande