Grecia: è la posta in gioco a disarmare i contendenti
Istituzioni ed economia
Negli ultimi mesi, da quando si è insediato il governo di Alexis Tsipras, complice la dimestichezza del suo ex ministro delle finanze con la teoria dei giochi, l’attenzione si è concentrata sulle carte che avevano in mano i due giocatori nella trattativa tra la Grecia e i suoi creditori.
Oggi appare sempre più chiaro come sia invece la posta in gioco, più che le carte a determinarne il risultato, e che c’è stata una percezione distorta, o forse limitata, delle possibili conseguenze di una rottura definitiva delle trattative, con conseguente uscita della Grecia dall’Eurozona. Se questa dispercezione sia stata solo un problema dei media, o anche delle parti direttamente coinvolte, non è dato sapere, anche se l’accelerazione drammatica degli eventi dell’ultima settimana può suggerire l’idea che fossero in molti ad avere sopravvalutato la propria dotazione di munizioni, o l’efficacia delle proprie difese.
La proposta finale del governo greco ai creditori, consegnata poche ore fa, sembra costituire l’essenza del paradosso: dopo aver stravinto un referendum che vincolava il governo a rifiutare la proposta di venerdì scorso, oggi Tsipras ne presenta una ancora più “austera” ai suoi creditori. Dall’altra parte, nel momento in cui l’atteggiamento di Tsipras sembrava fornire l’alibi per liberarsi definitivamente del problema, i partner europei si trovano a dover riaprire la trattativa, impegnando i contribuenti dei loro paesi a sostenere, non si sa ancora per quanto tempo, il debito di Atene. Se la rappresentazione del “gioco del pollo” era quella che andava per la maggiore - due auto lanciate a folle velocità una verso l’altra, in cui perde chi sterza per primo - si può dire che alla fine entrambi i piloti hanno sterzato (salvo ulteriori sorprese, che ovviamente non escludiamo), evitando la collisione.
Si è molto discusso sui rischi di contagio che l’uscita della Grecia dall’Euro avrebbe comportato sui paesi più vulnerabili, l’Italia prima di tutto, ma anche Spagna, Portogallo e Francia. L’aspetto su cui si è meno focalizzata l’attenzione riguarda la natura stessa delle unioni monetarie, che hanno senso solo se sono irreversibili. Se venisse meno questa irreversibilità ci ritroveremmo in una strana copia dello SME, i cui costi sistemici supererebbero i benefici. Paradossalmente, quando si dice che nei primi anni successivi alla nascita dell'Euro i mercati prezzavano in maniera distorta e innaturale il rischio dei diversi paesi, con spread quasi nulli tra titoli tedeschi e greci, si dice una verità parziale: i mercati scommettevano sull’irreversibilità dell’Euro, attribuendo a quella irreversibilità, correttamente, la ragione stessa della nascita della moneta unica.
Il problema di come poi le autorità politiche europee e nazionali diano senso compiuto a questa scommessa resta un problema politico, che ad oggi è ancora il problema per eccellenza dell’Europa: una Grecia momentaneamente salva può servire a far tirare un sospiro di sollievo, non a risolvere la questione del rapporto tra economie diversamente competitive, debiti diversamente sostenibili e governi diversamente responsabili all’interno di una unione monetaria: lo scambio “sovranità in cambio di responsabilità”, che attualmente costituisce il cardine del sistema, non funziona, soprattutto in presenza di governi intrinsecamente irresponsabili come quello greco, proprio perché allo stato attuale non prevede sanzioni. Ma anche l’alternativa della riproposizione su scala continentale del trasferimento sine die di risorse da un Nord produttivo verso un Sud assistito - sistema tipico di un paese che conosciamo bene - non è praticabile, e in assenza di una rappresentanza politica unitaria a livello continentale la tensione tra paesi che una situazione del genere comporterebbe sarebbe fatale, nel lungo (ma forse nemmeno tanto lungo) periodo. In ogni caso, mettere la sopravvivenza stessa dell’Eurozona sul piatto della bilancia delle trattative ha reso poco credibile la minaccia, e forse spinto Tsipras a giocarsi il tutto per tutto sul finale.
Finale che però ha mostrato, in primo luogo allo stesso Tsipras, quanto siano spuntate le armi greche: difficile immaginare che il premier ellenico si sarebbe avventurato in un referendum, dilapidando poi sul più bello il capitale di consenso che da quel referendum aveva ricevuto, se avesse tenuto nel giusto conto la realtà che invece è apparsa nella sua drammatica chiarezza nell'ultima settimana: la crisi di liquidità che stava infliggendo al sistema bancario del suo paese avrebbe spinto, per inarrestabile inerzia, fuori dall’Euro anche una Grecia vittoriosa nella trattativa con i creditori, e la sua promessa/menzogna elettorale, “no all’austerità, sì all’euro”, era destinata a crollare, caricandolo della responsabilità politica di austerità anche peggiori: il ritorno a una valuta nazionale, come dimostra la storia di chiunque si sia sganciato da un sistema di cambi fissi in una condizione di stress economico, conduce direttamente al disastro, per la Grecia come per chiunque altro abbia voglia di avventurarsi su una strada simile. Averlo compreso, anche se in extremis, è già un passo avanti.