La tassa sulla copia privata, eufemisticamente chiamata "equo compenso", è al centro di un dibattito che si trascina da diversi anni con intensità altalenante. Alle accuse di diverse associazioni dei consumatori, che hanno fatto notare il carattere arbitrario e vessatorio della tassa, hanno fatto seguito le risposte piccate di esponenti del Governo e della SIAE che hanno difeso il provvedimento. È opportuno quindi fare un po' di chiarezza sull'iter storico della norma e sulla logica ad essa sottesa (ammesso che esista).

smartphone

Le tasse sui dispositivi di memorizzazione vengono gradualmente introdotte in Europa in ottemperanza alla direttiva europea 2001/29/CE del 22 maggio 2001. In Italia la materia era già regolata da una legge del 1941, le cui tariffe sono state più volte aggiornate alla luce dello sviluppo tecnologico e della nascita di nuovi supporti, fino ad arrivare all'ultimo ritocco della fine del 2009.

Ora pare che il ministro Franceschini abbia pensato di modificare ulteriormente queste tariffe, introducendo aumenti del 500%. Già nel marzo 2014, con la nascita del Governo Renzi e il passaggio di consegne tra Franceschini e Massimo Bray, il ministro precedente, la SIAE aveva fatto pressione sul governo con una petizione firmata da diversi artisti italiani che chiedeva una riconsiderazione delle tariffe. Sulle pagine del Corriere il segretario generale della SIAE, Gaetano Blandini, rispose così alle proteste delle associazioni dei consumatori:

E' da troppo tempo che regna una grande confusione sulla copia privata e crediamo sia opportuno sottolineare e ribadire, ancora una volta, che la copia privata non è una tassa bensì un compenso riconosciuto a chi crea opere di ingegno ed è definita per legge, una legge dello Stato che da 13 mesi non è applicata, in quanto non è ancora definito l’adeguamento previsto ogni tre anni. (...) Il compenso non deve essere a carico di chi acquista lo smartphone, ma del produttore, che riceve un beneficio dal poter contenere sul proprio supporto un prodotto autorale come una canzone o un film, come ha più volte affermato Gino Paoli, presidente SIAE. 

Dispiace dover far notare che il ragionamento di Blandini e quello di Gino Paoli sono logicamente carenti e nefasti sul piano pratico. Questa tassa sull'equo compenso non è un compenso, non è una tassa e non è equa. Non è un compenso perché non va a pagare alcun prodotto acquistato: quando compro un computer o uno smartphone non sto comprando contestualmente musica o film e non si capisce per quale motivo la SIAE debba mettere il naso in rapporti contrattuali che non la riguardano. Non è nemmeno una tassa, a voler essere pignoli, perché non serve a finanziare nessun servizio di pubblica utilità: la tassa sulla spazzatura serve a mantenere pulite le strade, ad esempio; la tassa sui dispositivi di memoria serve solo a mantenere la SIAE, una società statale che persegue interessi di categoria e non interessi generali.

Per tutti i motivi precedenti, non è nemmeno equo: questo prelievo forzato è un balzello che va a colpire i consumatori basandosi su ipotesi arbitrarie del legislatore e degli autori ed editori iscritti alla SIAE. Quando dice che questo balzello non deve gravare sul produttore, Gino Paoli da prova di grande ingenuità, a voler essere ottimisti: ogni tassa sulla vendita di un bene, anche se ufficialmente rivolta ai produttori, incide sia sui produttori sia sui consumatori.

Ma non è l'incidenza economica (la cui entità è trascurabile) a rendere il balzello insopportabile: è piuttosto l'insensatezza della misura, che equipara esplicitamente ogni consumatore ad un pirata informatico. La direttiva europea e le leggi applicative dei diversi stati membri fanno passare l'idea che tutti i consumatori compiano violazioni sistematiche e continue del copyright: questa è un'idea folle dal punto di vista giuridico, perché dalla presunzione di innocenza si passa direttamente alla presunzione di colpevolezza.

Molti commentatori hanno preferito criticare la tassa per altri motivi, ad esempio facendo notare che la maggior parte del consumo multimediale è ormai veicolato in streaming; mi sembra che queste argomentazioni siano piuttosto deboli, innanzitutto perché non è dimostrato che lo streaming abbia soppiantato il download nelle modalità di consumo illegale. μTorrent, il più popolare software di condivisione di file in "peer to peer", ha 150 milioni di utenti mensili: non tutto il traffico che vi passa attraverso riguarda file protetti da copyright, ma il dato dà un'idea delle dimensioni del fenomeno. Nelle 24 successive alla trasmissione dell'ultima puntata dell'ultima stagione della popolare serie televisiva Game of Thrones, la puntata stessa è stata scaricata illegalmente da 2 milioni di persone. La pirateria non è affatto morta, è anzi in ottima salute.

Il punto è che se anche le abitudini di consumo fossero effettivamente cambiate, questo non sarebbe un buon motivo per criticare la norma. La tassa sull'equo compenso va criticata non solo perché è inefficace, ma soprattutto perché è vessatoria. Arriviamo dunque al punto centrale di tutta la vicenda: la pirateria ha successo perché offre in maniera efficiente prodotti che sono troppo cari o troppo difficili da ottenere sui canali legali. Il consumo illegale di prodotti multimediali ha raggiunto da anni dimensioni planetarie e non è possibile fermarlo con balzelli medievali sull'acquisto di dispositivi elettronici. Il consumo illegale si ferma attraverso una riforma globale del copyright che ne diminuisca drasticamente la durata temporale e attraverso lo sviluppo di canali di vendita legale a prezzi molto contenuti. Finché invece Franceschini e i suoi successori continueranno a cedere alle pressioni della SIAE avremo una pirateria fiorente e una scena culturale immobile e ammuffita.

@LorenzoTondi