Calenda macchinari

In un bilancio si descrivono, nella parte definita “attivo”, i beni a disposizione dell’azienda per la sua gestione e nella parte definita “passivo” chi e in quale misura li ha finanziati, cioè ha contribuito ad acquisirli o comunque a metterli a disposizione dell’azienda: azionisti, banche o... fornitori non pagati.

Le due principali voci che costituiscono i beni permanentemente messi a disposizione dell’azienda si definiscono beni “materiali" o "immateriali” e cioè beni concreti come edifici, macchine utensili, impianti o altri strumenti d’opera oppure valori che contribuiscono a produrre profitto ma sono impalpabili come il know how , il “marchio aziendale” o addirittura “l’avviamento commerciale” inteso come potenziale di redditività futura.

Il panorama dei bilanci delle aziende dell’Occidente di 30 anni fa, vedeva di gran lunga prevalere i beni “materiali” su quelli “immateriali” mentre oggi la situazione è molto cambiata. I beni “immateriali” sono ben più copiosamente rappresentati nei bilanci delle aziende e in particolare di quelle più redditizie, mentre le attività “materiali” restano centrali nelle aziende di molti paesi emergenti. Vedi ad esempio le aziende del “software”, della generazione di internet . Esse non hanno valori significativi di beni materiali, mentre il loro vero bene che produce reddito è il know how o la presenza di una rete (talvolta globale) di connessioni (utenti) che le rende quasi monopoliste o comunque fornitori prevalenti di alcuni servizi.

Così va il mondo. Semplificando un po’ si può osservare che i paesi ricchi possono conservare ricchezza e ruolo solo creando sempre più ricchezza “immateriale”, mentre la ricchezza materiale cresce nei cosiddetti Paesi emergenti, che oramai sono largamente emersi, come la Cina, la Corea, il Brasile e in buona misura l’India. Tuttavia questa trasformazione di “natura” della ricchezza prodotta non è neutra rispetto all’assetto sociale di una comunità.

Macchinari ed impianti di produzione necessitano di una copiosa forza lavoro perché diventino strumenti di ricchezza. Produzioni complesse ed in larga serie necessitano di ottimi tecnici, operai specializzati e generici che stratificano l’organizzazione sociale in ceti o classi che i partiti e i sindacati cercano di rappresentare. Burocrazie, spesso eccessive, hanno cercato di regolare e gestire gli equilibri tra territorio e mezzi di produzione e gli squilibri di reddito derivanti da diversi livelli di professionalità, così come i profitti o le rendite speculative e con loro le truppe di avvocati e professionisti, esperti negli inevitabili labirinti di regole confuse e contradditorie. Aggregati urbani sempre più grandi hanno alimentato industrie e speculazioni, ma anche spinto a riorganizzare commerci e servizi. Insomma lo spaccato economico-sociale che noi conosciamo.

Ma come rappresentare e gestire il mondo del 4.0 che oggi si indica come il futuro inevitabile per l’economia dell’Occidente? Una semplice considerazione: Google, gigante indiscusso del mondo internet, con utili annuali superiori al PIL di alcuni Paesi, non ha più dipendenti dell’Ilva di Taranto. Questa ricchezza che premia beni “immateriali”, che in certi casi costituiscono “rendite globali”, come può essere socializzata? E come si dovrà organizzare un lavoro che necessita sempre meno di un vincolo di residenza specifica e di orario? Come far compartecipare alla ricchezza masse che la gestione di beni ”immateriali” non necessita di coinvolgere?

Davanti a questi cambiamenti la prevalenza degli intellettuali continua a sfornare analisi ed opinioni che interpretano il futuro in continuità con il passato, mentre la discontinuità è evidente. La nostra compromissoria Costituzione dichiara che il lavoro è un “diritto” perché in esso risiede la base della vera dignità, ma pare che il suo contenuto necessiti di essere reinterpretato nell’economia 4.0 (forse anche 5.0) e con esso anche i valori politici di una moderna comunità.