La nuova voglia di autarchia, da Beppe Grillo ai Forconi
Innovazione e mercato
Beppe Grillo ha lanciato, dalle pagine del suo blog, la sua personale Battaglia del Grano: “i prodotti per l'alimentazione nazionali consumati nel nostro territorio dovranno essere avvantaggiati fiscalmente rispetto agli stessi prodotti provenienti da Paesi della UE”. Si tratterebbe, in parole povere, di un ritorno al protezionismo commerciale per i prodotti agricoli, e del sostanziale smantellamento del mercato comune. Un tema assai caro anche alla Coldiretti, che pochi giorni fa - con il sorprendente sostegno del ministro De Girolamo - ha manifestato al Brennero fermando camion carichi di materie prime alimentari provenienti dal resto d’Europa e al cosiddetto movimento dei “Forconi”, che proprio in queste ore tentano di bloccare la circolazione sulle principali vie di comunicazione italiane.
Argomenta Grillo: “Se venisse applicato il vero costo del trasporto e della distruzione ambientale per i prodotti agricoli dall'estero verrebbe favorita SEMPRE la produzione interna”. In realtà qualsiasi bene, di qualsiasi provenienza, incorpora sempre il prezzo del trasporto, a meno che non si ritenga che le merci viaggino gratis. Probabilmente Grillo intende dire che alle merci provenienti dall’estero andrebbe applicata una tassa che compensi una presunta esternalità negativa relativa al trasporto su lunghe distanze. Più a lungo le merci viaggiano, recita il catechismo del km zero, maggiori saranno le emissioni inquinanti. I prodotti locali sarebbero quindi più “sostenibili” dei prodotti di origine estera, semplicemente perché fanno meno strada. Sebbene questa sia un’idea molto diffusa e radicata, si tratta di un luogo comune privo di fondamento, poiché non tiene in considerazione il diverso rapporto tra produzione e unità di superficie nelle diverse aree del pianeta, né l’incidenza delle emissioni derivanti dal trasporto su lunghe distanze nella catena del cibo.
Partiamo dall’ultimo punto: tutti gli studi seri (alcuni sono citati in questo paper) che hanno preso in considerazione l’impatto ambientale della produzione alimentare attribuiscono alla fase del trasporto su lunghe distanze una incidenza minima rispetto alla fase della produzione. Alcuni arrivano a stimare una differenza dell’ordine di 1 a 20. Si inquina molto di più per produrre il cibo che per trasportarlo in giro per il mondo. Al tempo stesso le condizioni pedoclimatiche di ogni regione influiscono significativamente sulla produttività: un ettaro di terra in Ontario produce mediamente un quinto delle fragole che può produrre un ettaro di terra in California. Per evitare di fare arrivare le fragole dalla California, i Canadesi dell’Ontario dovrebbero utilizzare 5 volte più terra, 5 volte più carburante per i trattori e le attrezzature agricole, 5 volte più passaggi con fertilizzanti e fitofarmaci, ecc. Un ettaro di terra, solo nelle diverse regioni italiane, può produrre 2 come 8 tonnellate di frumento, a seconda della natura del suolo, del clima, dell’esposizione e di tanti altri fattori. Se si ha a cuore la sostenibilità ambientale della produzione agricola, si dovrebbe preferire che ogni prodotto venga coltivato nelle zone maggiormente vocate, abbandonando ogni velleità autarchica.
Gli effetti ambientali positivi dell’intensificazione e della specializzazione agricola sono misurabili. Il grafico qui sotto mostra come nell’ultimo secolo, in Francia, nonostante l’aumento esponenziale della popolazione, sia aumentata in modo proporzionale anche la copertura forestale, che invece era andata calando nei secoli precedenti. Per quale ragione? Perché l’agricoltura intensiva ha spinto gli agricoltori a coltivare i terreni maggiormente produttivi, abbandonando (quindi restituendo agli ecosistemi naturali) quelli più marginali.
Il saldo ambientale positivo dell’intensificazione agricola è evidente anche nel nostro paese: secondo le stime del Ministero dell’Agricoltura, negli ultimi 40 anni sono stati sottratti alla coltivazione ben 5 milioni di ettari. Di questi, però, solo 1,5 milioni sono stati “cementificati”, mentre 3,5 milioni sono stati abbandonati perché poco produttivi. Dato che Grillo si lancia anche nella solita invettiva da bar contro la cementificazione, è bene ricordare che negli ultimi 40 anni abbiamo imparato a produrre di più (molto di più) utilizzando meno superficie, al punto che la terra che l’agricoltura ha restituito all’ambiente è più del doppio di quella che ha sacrificato per le costruzioni.
Beppe Grillo, poi, lamenta che “l'Italia produce solo il 70% degli alimenti che consuma”. Questo non è un dato sorprendente, per chi rammenta qualche rudimento di geografia del livello della scuola media inferiore. L’Italia è un paese molto popolato, ma che non dispone di molta superficie coltivabile: abbiamo il mare, le montagne, non si può avere tutto dalla vita. Dato che, semplicemente, importiamo quel che non riusciamo a produrre, il buon senso suggerirebbe che tenere aperte le frontiere sia la politica commerciale più lungimirante per un paese come il nostro, soprattutto dal momento che immaginiamo per il Made in Italy alimentare di qualità straordinarie fortune all’estero. Ma il buon senso, come la terra coltivabile, è evidentemente una risorsa scarsa dalle nostre parti.
Alcune settimane fa le agenzie riportavano la seguente affermazione di Grillo: “siamo i secondi produttori al mondo, in Puglia c’è l’olio più buono al mondo, ma siamo anche i secondi importatori. Questo perché importiamo delle ‘schifezze’ da Spagna e Tunisia per guadagnarci un euro. Allora noi proponiamo di tornare ai dazi”. Ecco, guardiamo l’olio: il Consiglio Oleico Internazionale aggiorna ogni anno i dati sulla iproduzione e il consumo di olio di oliva in ogni paese. L’Italia nel 2012 ha prodotto 399.200 tonnellate di olio, e ne ha consumate 610.000: fare l’olio buono non significa farne abbastanza. E la Spagna, quella delle “schifezze”? Sempre nel 2012, a fronte di un consumo interno di 574.000 tonnellate, la penisola iberica ha prodotto ben 1.615.000 tonnellate di olio di oliva. Giocando sullo stesso campo dell’Italia, in un mercato comune europeo senza dazi. E, anno dopo anno, affinando anche la qualità del suo olio, che in molti casi è all’altezza di quello italiano.
Chiudere le frontiere non servirebbe a soddisfare la domanda interna con prodotti nazionali, perché prodotti nazionali a sufficienza non ce ne sono. Più probabilmente, i prezzi dei prodotti alimentari aumenterebbero al punto da indurre un calo nei consumi sufficiente a far coincidere domanda ed offerta. Basta dirlo, se è quel che si vuole. E non sarebbero aumenti di poco conto, considerata la proverbiale anelasticità dei prezzi del cibo. Ma se questa prospettiva, oggettivamente catastrofica per i consumatori, potrebbe sembrare allettante per gli agricoltori, anche qui si tratta di una pia illusione: anche i produttori avrebbero solo da perdere da un ritorno in grande stile del protezionismo commerciale.
E non solo quelli che esportano, che subirebbero le inevitabili ritorsioni degli altri paesi. Concentrare la produzione in un’area limitata significa infatti esporre le aziende alla volatilità dei prezzi. Invece, più le merci sono in grado di circolare, più stabili sono i loro prezzi, dato che la produzione di un’area geografica può compensare un calo dei raccolti di un’altra regione. Le produzioni agricole non sono mai prevedibili, soggette come sono alle variabili atmosferiche e climatiche, e gli agricoltori di tutto il mondo conoscono bene gli effetti devastanti che possono avere sbalzi di prezzo troppo repentini sull’economia delle loro aziende.