Federconsorzi: il ‘made in Italy’ che continua a chiedere soldi agli italiani
Strade del Cibo
La storia di Federconsorzi è, sotto certi versi, la storia d’Italia, nel bene e soprattutto nel male. Per questo, al di là dell’effetto comico e del significato paradossale, la frase del presidente della Commissione Finanze della Camera Maurizio Bernardo (AP) “difendere il sistema dei consorzi agrari significa difendere la sovranità alimentare del nostro Paese e sostenere la competitività del made in Italy” ha al tempo stesso un che di vero e un che di inquietante. E’ vero, il sistema dei consorzi agrari è molto “made in Italy”, il made in Italy peggiore, quello che fonde interessi corporativi e clientelismo politico, in un minestrone il cui costo ricade sempre, regolarmente, sulle spalle dei contribuenti senza che il sistema paese ne riceva mai un grammo di vantaggio in termini di competitività. Il made in Italy delle zavorre e del declino, di cui anche Alitalia è un caso emblematico che sta andando a meta in questi giorni.
La frase dell’on. Bernardo si riferiva all’emendamento alla cosiddetta mini-manovra presentato da Maurizio Guerra (PD) che prevedeva l’istituzione presso Ismea (l'Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare) di un fondo da 40 milioni di euro per il 2018 (da estendere a 150 milioni complessivi) per coprire le esposizioni dei consorzi agrari (i pochi non ancora falliti) nei confronti delle banche. Un salvataggio in piena regola, e molto costoso, che molti commentatori hanno interpretato come una sorta di remunerazione nei confronti di Coldiretti per il sostegno al governo e al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Un salvataggio che, al di là delle dietrologie, ha trovato l’opposizione di tutte le associazioni d’impresa del mondo agricolo (rabbiosa la reazione di Confagricoltura) tranne, ovviamente, quella di Coldiretti. Alla fine l’emendamento è stato ritirato e il salvataggio - per il momento - evitato.
La storia di Federconsorzi, dicevamo. Nasce alla fine dell’ottocento in un paese che oggi stenteremmo a riconoscere, nel quale l’agricoltura è il principale comparto economico e nel quale quasi tutti abitano e lavorano nei campi. Un “potere forte”, diremmo oggi, in un paese da poco unito in un’unica nazione che deve riscattare milioni di persone dalla miseria. Gli strumenti? Il credito agrario e gli ammassi annonari, soprattutto a partire dagli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. La struttura unisce i Consorzi Agrari, cooperative nate per aumentare il potere d’acquisto delle aziende agricole e diffondere le innovazioni tecnologiche nelle campagne, e diventa immediatamente un cardine dell’impostazione dirigistica del nuovo Stato unitario prima e del fascismo poi, che la ristruttura secondo un’organizzazione territoriale - i consorzi provinciali - che la rendono di fatto un’istituzione governativa.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale Federconsorzi è l’unica “istituzione” ancora sufficientemente solida e strutturata, in un paese devastato, per organizzare la distribuzione dei fondi del piano Marshall, ma il salto di qualità deve ancora arrivare, e arriverà in breve tempo. Il protagonista della rivoluzione è Paolo Bonomi, fondatore di Coldiretti, su mandato della Democrazia Cristiana: prima organizza un’iscrizione di massa, e subito dopo, appena raggiunta una posizione sufficientemente solida nell’organizzazione, ottiene dal governo una legge che attribuisce al comitato direttivo dei consorzi il potere di selezione dei nuovi soci. Una blindatura in piena regola, che ha garantito a Coldiretti il controllo di federconsorzi fino ad oggi.
Da lì in avanti la storia di Federconsorzi corre parallela alla green revolution, e allo sviluppo turbinoso dell’agricoltura del secondo dopoguerra. I consorzi agrari diventano organizzazioni sempre più potenti e sempre più indispensabili nella vita degli agricoltori, che dai consorzi ottengono il credito e nei consorzi lo spendono in attrezzature, sementi, prodotti chimici. Un circuito chiuso che fornisce consenso ai governi e in cambio riceve aperture di credito e posizioni di monopolista: Fiat, ad esempio, ha potuto beneficiare in esclusiva della rete dei consorzi agrari per vendere i suoi trattori fino agli anni ’90, ed Enichem per i fertilizzanti. Un impero tanto “visibilmente” potente, fatta di partecipazioni industriali (Polenghi Lombardo, Johnny Colombani) bancarie (Credito Agrario di Ferrara e BNA) e assicurative (FATA), fabbriche, terreni, uffici, aziende, magazzini e impianti distribuiti su tutto il territorio nazionale, e tanto occulto nella sua gestione: fino al 1975 il prospetto contabile con cui Federconsorzi adempiva agli obblighi di pubblicazione dei bilanci valutava tutto quel ben di Dio in una cifra inferiore al valore della sola sede di Roma.
E invece si trattava di una holding che fatturava, alla fine degli anni ’80, 4000 miliardi di lire, ma era indebitata per per più di 8000, secondo le stime dei giornali dell’epoca. E il suo crack fu tanto esteso e fragoroso quanto sintomatico di ciò che stava cominciando a essere sempre più chiaro nell’Italia di quegli anni. C’è un articolo di Carlo Clericetti di maggio del 1991 che è particolarmente illuminante nella descrizione delle reazioni degli istituti di credito alla presentazione del piano di rientro elaborato dai commissari, in un certo senso c’è la storia dell’Italia che è venuta dopo, dalla quale ancora non siamo usciti:
Gli istituti creditori, però, qualche sacrificio dovranno farlo: ricalcolare gli interessi degli ultimi due anni al 10%, un tasso molto più basso di quello di mercato, e rinunciarci del tutto per il ' 91. Scoppia il finimondo. I politici si scatenano in furiose polemiche. Dai banchieri italiani arriva qualche indignato grido di dolore, che poi però sembra sopirsi e limitarsi al mugugno; ma quelli esteri, perché tra i creditori ci sono istituti giapponesi, americani, tedeschi, francesi e inglesi, protestano con molta più decisione. Abbiamo prestato soldi alla Federconsorzi perché l' abbiamo sempre considerata una struttura pubblica, dicono; Non svolgeva compiti per conto dello Stato, non era sotto la vigilanza del ministero? Dobbiamo forse aspettarci che un domani ci si proponga un concordato per i prestiti all' Efim o alla Rai o all'Alitalia? Questo può danneggiare la credibiltà dell'Italia sui mercati internazionali molto più delle classificazioni di Moody’s.
Poi, a valle di tutto questo, le gestioni commissariali, i contenziosi con lo Stato per i crediti degli ammassi annonari di prima della guerra, ancora non risolti, le commissioni di inchiesta e le inchieste giudiziarie. Tutto molto “made in Italy”, in effetti, come la richiesta di nuovi soldi ai contribuenti per tenere artificialmente in vita a nostre spese - spacciandola per sovranità aimentare - ciò che resta dei brandelli un sistema che rappresenta, per certi versi, il peggio del nostro paese.