logo editoriale“Sulle riforme abbiamo bisogno di fatti, non di parole”. Non era un’osservazione inattesa, né particolarmente bizantina, quella che Manfred Weber ha rivolto a Matteo Renzi ieri a Strasburgo: la richiesta di garanzie vere, un processo di riforme avviato e convincente, per poter cominciare a parlare della tanto sospirata “flessibilità” con un capitale reputazionale adeguato da investire.

Eppure a rispondere al capogruppo tedesco dei Popolari Europei non è stato il Matteo Renzi al quale eravamo abituati, quello delle slides, dei cento giorni, di una riforma al mese. No. A rispondere di fronte all’europarlamento è stato  il fantasma di Giulio Tremonti, entrato di soppiatto nel corpo dell’ex rottamatore di Rignano sull'Arno, sillabando: “è vero che l'Italia ha un debito molto alto, ma è anche vero che ha una ricchezza privata quattro volte superiore”. E mecojoni.

Matteo Renzi si è conquistato un’apertura di credito, interna ed esterna, sconosciuta finora ad un premier italiano capovolgendo coraggiosamente la retorica vittimistica e stracciona alla quale eravamo abituati: in Italia Renzi non cerca capri espiatori, non attribuisce l’origine del declino a complotti e nemici esterni, richiama regolarmente al senso di responsabilità di una nazione matura che deve fare da sola i conti con i propri problemi.

Ma se dopo quattro mesi e spicci di governo i tempi delle riforme si allungano, e delle riforme stesse i contorni appaiono sempre più evanescenti, non resta che il richiamo alla grande patrimoniale tanto cara a Berlusconi e a Tremonti, al risparmio privato mio-tuo-nostro che garantisce il debito pubblico. E se dopo quattro mesi di governo l’unico provvedimento definitivo e "strutturale" varato è stato l’aumento dell’aliquota sulle cosiddette “rendite finanziarie” aka i risparmi-investiti-in-qualsiasi-cosa-tranne-i-titoli-di-stato, entrato in vigore proprio l’altro ieri e che colloca quello di Matteo Renzi nella luminosa scia degli esecutivi che l’hanno preceduto, il sospetto che non si riesca anche questa volta ad andare oltre la retorica riformista è più che legittimo.

Il problema, che non sarebbe dovuto sfuggire ai pulitzer di casa nostra, è che in Europa risposte del genere se le sono sentiti dare fin troppe volte. Dal 2011 ad oggi da quattro Presidenti del Consiglio diversi, ma alla fin fine così somiglianti l'uno all'altro.

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