logo editorialeRottamare la classe dirigente di un partito è operazione possibile. Rottamare tutta una classe politica è un po’ più complicato. Ma rottamare l’intero modello politico-sociale e burocratico di un paese, assomiglia veramente a una “mission impossible”. Di quest’ultimo aspetto abbiamo avuto conferma ieri, dopo avere ascoltato le decisioni del consiglio dei ministri su fisco, mercato del lavoro e occupazione nella conferenza stampa tenuta da Renzi.

È netta la sensazione che le buone intenzioni e l’entusiasmo del presidente del consiglio abbiano un po’ ceduto il passo di fronte ai colli di bottiglia di un sistema normativo, burocratico, di relazioni politico-sociali incapace di adattarsi in modo rapido e deciso alle esigenze di imprese, lavoratori e cittadini. Matteo Renzi si è limitato a scandire, anche se in modo più dettagliato, una road-map che a grandi linee aveva già annunciato da mesi. Senza, cioè, mettere nero su bianco le decisioni in provvedimenti normativi concreti. E poi la sostanza degli interventi proposti non sembra all’altezza delle aspettative.

Si tratta, infatti, di interventi che continuano a muoversi all’interno della solita logica di redistribuzione delle risorse per il mantenimento degli equilibri politici e tra le parti sociali. In tema di fisco, l’annunciato taglio del cuneo fiscale, di cui si è parlato a lungo e dal quale pare dovesse arrivare il rilancio della competitività, ha i tratti di un intervento di sostegno ai consumi per le fasce di reddito più basse, e probabilmente finirà per incidere in misura solo marginale sull’andamento dell’economia. Il volume delle risorse in gioco, infatti, appare rilevante in sé, e senz'altro lo è per i beneficiari dell'intervento, ma diventa poca cosa se rapportato al PIL. Oltretutto pare che, per accontentare i sindacati, lo sgravio fiscale privilegerà solo i lavoratori dipendenti trascurando gli autonomi.

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Questo intervento sul fisco, purtroppo, assomiglia molto alle frequenti redistribuzioni di tesoretti che abbiamo visto nel corso degli ultimi due decenni. La sola differenza, in senso peggiorativo, è che il tesoretto questa volta non c’è. Dalle dichiarazioni di Renzi, infatti, si capisce che l’intervento, che costa 10 miliardi di euro, verrebbe “coperto” per ben 6 miliardi, nel rispetto del vincolo europeo di bilancio, sfruttando tutto il margine che rimane tra il nostro deficit pubblico (stimato intorno al 2,6% per il 2014) e il tetto del 3 per cento. Questo in buona sostanza è un altro modo per dire che i 6 miliardi di euro non ci sono, e che l’intervento è fatto in deficit. Altri 3 miliardi circa dovrebbero arrivare da risparmi di spesa per interessi, già previsti dal precedente governo Letta, ma prudenzialmente non ancora contabilizzati nell’ultima legge di stabilità. Si tratta, però, di risorse tutto sommato incerte. Sono state stimate in base all’ipotesi che lo spread si mantenga sotto quota 200 e continui a scendere fino a quota 100 nell’arco dei prossimi tre anni. Questa copertura, quindi, si regge su una ipotesi chiaramente ottimistica, e a rigor di logica non dovrebbe essere considerata a carattere strutturale e permanente.

Le sole risorse derivanti da reali tagli di spesa sono quelle individuate dal piano per la spending review del commissario Cottarelli. Tuttavia i tagli potenziali individuati dal piano, come puntualmente messo in rilievo dallo stesso commissario, vanno implementati e realizzati concretamente. E come si dice in questi casi, tra il dire e il fare potrebbe frapporsi il mare. Sul taglio del 10 per cento dell’IRAP finanziato con l’aumento della tassazione del risparmio non c’è molto da aggiungere. In questo caso è abbastanza palese sia la logica redistributiva dell’intervento (si riduce una imposta aumentandone un’altra), sia la logica dell’equilibrio politico, visto che si favorisce un po’ il mondo imprenditoriale per controbilanciare il favore fatto al mondo sindacale con lo sgravio fiscale sui redditi da lavoro dipendente.

In tema di mercato del lavoro e di occupazione, l’unica misura degna di nota, e che probabilmente potrà trovare subito applicazione con un decreto legge, riguarda i contratti di lavoro a tempo determinato. Essi tornano finalmente liberi dopo le forti limitazioni imposte dall’ultima riforma del 2012. Ma si tratta comunque del ritorno alla situazione precedente la legge Fornero, del ripristino di una flessibilità in entrata che in qualche modo doveva già considerarsi acquisita. Per il resto, l’annuncio che il governo probabilmente ricorrerà a un disegno di legge delega per il mercato del lavoro lascia presagire tempi lunghi, chiaramente in contrasto con l’idea che tutti ci eravamo fatti quando abbiamo sentito parlare di “Jobs Act”: un termine anglosassone che sembrava volere sottolineare l'intenzione di cambiare, insieme alla terminologia, anche il passo, la rapidità e l’incisività di intervento.

Evidentemente avevamo capito male. Il linguaggio, allora, è stato ancora una volta solo il modo di vestire concetti, procedimenti e azioni sostanzialmente immutate. Se nei prossimi mesi dovessimo assistere all'apertura di lunghi e tribolati tavoli di confronto con le parti sociali, sarebbe definitivamente chiaro che siamo ancora una volta davanti alle vecchie ritualità. Ritualità con risultati poveri, sofferti e comunque non in grado di cambiare, se non marginalmente, gli assetti esistenti. In estrema sintesi, la conferenza stampa di ieri non ha ancora dato prova concreta di alcun cambio di marcia. Siamo ancora sulla road-map, quindi, e le scadenze e gli obiettivi tutto sommato ambiziosi e coraggiosi. Ma come al solito, la differenza tra una proposta e una promessa, tra la politica economica e la propaganda, si vede soltanto ex post. E passa per i risultati concreti.