Con sentenza dell'11 febbraio 2015, la Corte Costituzionale, a distanza di 7 anni dalla sua istituzione, ha dichiarato illegittima l'addizionale Ires sull'energia, meglio nota come Robin Hood Tax.

La sentenza merita alcune riflessioni per due ragioni: la prima inerente i motivi dell'incostituzionalità dell'imposta, la seconda relativa alla decisione del giudice costituzionale di derogare al principio generale della retroattività delle sentenze di annullamento. Infatti, la Corte ha stabilito che la sentenza abbia efficacia a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale, di fatto condonando l'illegittima riscossione dell'imposta avvenuta in questi anni.

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Partiamo dalle motivazioni della sentenza. La Corte ha giudicato irragionevolmente discriminatoria la previsione di un'addizionale sul settore petrolifero ed energetico. Non che sia del tutto inammissibile un regime fiscale più vessatorio per taluni comparti e soggetti; piuttosto, una tassazione differenziata e più gravosa deve essere razionale, giustificata e coerente. Condizioni che il legislatore ha del tutto disatteso.

L'imposta è stata introdotta nella fase iniziale della crisi per colpire un settore nel quale si riteneva che alcuni soggetti traessero un eccessivo vantaggio dall'alto costo dei prodotti petroliferi, con l'intenzione di tassare gli "extraprofitti" così generatisi. Così recita la lettera della norma: "In dipendenza dell'andamento dell'economia e dell'impatto sociale dell'aumento dei prezzi e delle tariffe del settore energetico, l'aliquota dell'imposta sul reddito delle società (...), è applicata con una addizionale di 6,5 punti percentuali...". L'aliquota dell'Ires è passata quindi dal 27,5% al 34%.

Foss'anche vero che, come si spinge a commentare il giudice, alcuni operatori abbiano sfruttato una struttura oligopolistica di alcuni segmenti del mercato per aumentare i propri ricavi, non si spiega:

1) Perché l'inasprimento fiscale interessasse tutta la filiera dei carburanti, del gas e dell'energia elettrica, dalla produzione alla commercializzazione, passando, con una modifica del 2011, anche per la distribuzione e la trasmissione;

2) perché si è inteso tassare comunque tutto il reddito (la base imponibile è data dall'utile complessivo) e non solo, con aliquote marginali e progressive, i tanto vituperativi extraprofitti, ovvero la quota di utile che il legislatore aveva la pretesa di giudicare come eccedenti il livello ritenuto, sempre secondo l'illuminato ispiratore della norma, rispondente alla giustizia terrena e divina;

3) perché prevedere a regime, a prescindere dalla congiuntura economica, l'applicazione di una tassa giustificata da un momentaneo rialzo dei prezzi petroliferi.

Paradossalmente, pochi mesi dopo l'introduzione della Robin Tax, i prezzi del petrolio e della benzina crollarono clamorosamente: Brent e WTI passarono da oltre 140 a circa 40 dollari al barile; in Italia, il prezzo industriale della benzina scese dai 70 centesimi ai 48 centesimi al litro (in parte compensati dagli aumenti delle accise stabiliti dal Governo) in pochi mesi.

Analoghe valutazioni possono essere svolte per il mercato elettrico: dal 2008 a oggi i consumi elettrici sono scesi del 9% e il costo di produzione dell'energia pagato dal cliente domestico italiano (al netto delle imposte e degli altri oneri di sistema) è diminuito del 28% (compensato dall'aumento del costo degli incentivi alle fonti rinnovabili, che nel frattempo è quasi quadruplicato).

La Robin Tax, congegnata per "punire" chi guadagnava troppo ha colpito quindi gli operatori del settore proprio quando la crisi e la conseguente contrazione dei consumi dell'energia hanno iniziato a mettere a dura prova la redditività di molti impianti.

Ma veniamo alla seconda questione: l'irretroattività della sentenza. Generalmente, le sentenze della Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, in quanto non è accettabile che una norma che viola la Costituzione, legge fondamentale dell'ordinamento giuridico, possa produrre effetti anche se pro tempore ed è, invece, da considerarsi nulla dal momento in cui è stata adottata. Fanno eccezione i rapporti giuridici esauriti (per esempio, quelli decisi con sentenza passata in giudicato,o non più operanti, per decadenza o prescrizione) e altri casi in cui la Corte giudica che la decisione potrebbe prodursi "effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili". Nel caso della sentenza di annullamento della Robin Tax, la Corte ha ritenuto che "l'impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale...determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l'Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale".

Chiunque, di fronte a Equitalia, vorrebbe poter opporre gli stessi argomenti e obiettare che il suo bilancio familiare può permettergli di adempiere alle obbligazioni future, ma non di sanare il mancato pagamento di un'imposta in passato.

È comprensibile che si ponga un limite alla retroattività di una sentenza della Corte quando si tratta di rapporti instauratisi tra privati che, in buona fede, hanno fatto legittimo affidamento sull'aderenza alla Costituzione di una norma che hanno applicato e che subirebbero gravi stravolgimenti dalla retroattività della decisione della Corte. Non è colpa loro se il legislatore ha approvato norme che violano i principi costituzionali. Ma nel caso di una legge tributaria, chi ha beneficiato della norma incostituzionale è lo Stato, lo stesso che ha posto in essere quella disposizione. Se poi, in pendenza di un giudizio presso la Consulta, lo Stato inasprisce una tassa in odor di illegittimità costituzionale, come accaduto nel 2011, quando l'ambito soggettivo è stato esteso e l'addizionale IRES aumentata dal 6,5 al 10,5 per cento, trattasi evidentemente di colpa grave.

Quanto poi all'impatto macroeconomico, risulta a dir poco opinabile che gli effetti sulla redditività di alcune aziende debbano per forza passare in secondo piano rispetto alle ragioni dell'erario. Le entrate fiscali derivanti dalla Robin Tax ammontano a circa un miliardo di euro l'anno (1,5 miliardi di euro l'anno durante il periodo in cui è stata applicata nella misura del 10,5%). Si calcola che dal 2008 a oggi, la Robin Tax ha portato 5,7 miliardi di euro nelle casse dello Stato. È quindi più grave l'impatto su un'azienda di un'imposta che decurta del 6,5% il proprio utile per 6 anni o l'obbligo per lo Stato di ridurre dello 0,007% la spesa pubblica?

Conoscendo le scarse capacità di autoriformarsi dello Stato, si potrebbe anche propendere per la seconda risposta. Il punto è che se passa questo principio, il contribuente finisce per essere in balia dell'arbitrio più assoluto dello Stato. L'erario può violare sistematicamente la costituzione e chiedere qualsiasi cosa al cittadino e potrà approfittarne finché la Corte Costituzionale non si sarà espressa sul punto. E anche in quel caso non sarà chiamato a pagare per i propri errori.

E per finire, l'ultima particolarità, sconcertante. L'ordinanza di rimessione del giudizio di legittimità costituzionale da parte della Commissione tributaria di Reggio Emilia è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2011. La decisione è stata assunta in udienza pubblica il 13 gennaio 2015, 1182 giorni dopo. In media, la Corte costituzionale, pubblicata un'ordinanza di rimessione, decide in 218 giorni. Solo grazie a questo ritardo, in tre anni lo Stato ha incassato illegittimamente 3,8 miliardi di euro in più.