Domenica 11 gennaio i media di mezzo mondo trasmettevano le immagini del grande rassemblement di Parigi. La più grande manifestazione francese dai tempi del secondo conflitto mondiale ha visto scendere in piazza le famiglie delle vittime, assieme a 44 capi di Stato e di Governo e a un milione e mezzo di persone. In quel momento, l'hashtag #jesuisCharlie, con i suoi omologhi #jesuisAhmed o #jesuisjuif, veniva rilanciato ovunque. Eravamo tutti Charlie, per la causa della libertà d'espressione.

jesuischarlie

Nella settimana successiva, invece, la marea di emozione ha avuto il suo riflusso, che ha lasciato scoperta una spiaggia cosparsa di insinuazioni e di critiche. Finalmente, dunque, si scoprono le carte sulle opinioni a proposito della satira di Charlie Hebdo.

Non che non ci fossero già alcuni indizi. L'unanimità che ha caratterizzato le reazioni più immediate non poteva durare a lungo. In questo, i social network giocano un ruolo importante: nel diffondere in maniera istantanea e virale questi contenuti, determinano da subito una grande maggioranza che si uniforma al sentimento generale e una piccola minoranza che si schiera contro, per ragioni proprie o per provocazione; inoltre, danno la percezione distorta che si sia tutti d'accordo. Soprattutto quando sono i media tradizionali, che ancora usano come soggetto il fantomatico "popolo del web", a riportare come unanimi le emozioni e le reazioni prevalenti su Internet.

Guardando, poi, alla manifestazione di Parigi, la presenza di certi capi di Stato e di Governo poteva già far sollevare qualche dubbio. Come ha segnalato Fabio Chiusi, gli Stati da cui molti di essi provengono sono stati già testimoni di atti che mostrano assai poco rispetto per la libertà di stampa e per i diritti dei giornalisti. Quella sezione del corteo marciava contro il terrorismo, più che per la libertà di espressione, e in generale contro le minacce alla stabilità politica. E, come si sa, la parola "stabilità" si traduce in modi diversi nei diversi paesi.

Con la manifestazione di domenica 11, l'emozione ha potuto trovare il suo sfogo. Per fortuna, verrebbe da aggiungere: è questo è il momento in cui chi vuole difendere un'interpretazione più ampia possibile della libertà d'espressione deve attrezzarsi di idee chiare e buone argomentazioni: una volta esaurito l'impatto emotivo delle prime ore, emerge un consenso piuttosto diffuso che, se non viene affrontato, rischia di trasformarsi in una risacca ostile.

Da un lato possiamo già scorgere pericoli concreti di azioni politiche e legislative contro queste libertà: vengono non tanto dai religiosi, quanto piuttosto dalle autorità, che in nome della sicurezza cercano pretesti per sorvegliare i propri cittadini. I Ministri degli Esteri dell'Unione Europea hanno già avanzato richieste al Parlamento perché non ostruisca il cammino di un disegno legislativo che faciliti il reperimento dei dati sui passeggeri dei voli. Per quanto certe misure possano essere utili, dovremo dimostrare di essere dotati di anticorpi alle "degenerazioni" stile NSA.

Il secondo pericolo è culturale, e proviene dalla percezione diffusa che, nonostante tutto, la satira praticata sulle pagine di Charlie Hebdo fosse "eccessiva". L'attentato di Parigi ha diffuso, come in una sorta di deflagrazione, frammenti del settimanale francese in tutto il mondo. La pubblicazione di un numero straordinario di copie e la loro diffusione ha permesso di far conoscere direttamente lo stile e la linea di pensiero di Charlie Hebdo. È chiaro che quella satira incisiva, provocatoria, irrispettosa di qualsiasi autorità, non sia piaciuta a molti.

Difendendo Charlie Hebdo, però, non difendiamo lo stile e i temi scelti da Charlie Hebdo, quanto il fatto che la sua redazione potesse creare un giornale, deciderne in autonomia la linea editoriale, pubblicarlo e venderlo. Ogni contenuto viene giudicato in modo differente da persona a persona. Gli artisti devono continuare a essere liberi di essere irriverenti. Anche per il solo piacere di farlo, o perché qualcuno vuole leggere certe vignette, o anche per dimostrare di poterlo fare.

C'è chi, invece, prova a chiedere deroghe alla libertà di espressione e di stampa, pur senza avanzare criteri chiari e generali. La libertà, però, è svilita se le si pongono dei limiti arbitrari. La sua importanza è nel suo essere contemporaneamente mezzo e fine: un mezzo, in quanto base fondamentale di un ambiente sociale che permetta uno scambio di idee dinamico, fertile e imprevedibile; un fine, in quanto va salvaguardata costantemente da chi intende abusare della propria autorità e del proprio potere. Difendere Charlie Hebdo, dunque, non vuol dire pretendere che a tutti piaccia la satira corrosiva e caustica che quel giornale aveva scelto per sé e per quella piccola parte di pubblico francese che lo seguiva. Vuol dire difendere il diritto di poter scrivere di tutto, senza badare a chi potrebbe rimanerci offeso, a patto di non calunniare altre persone.

È naturale che Bergoglio difenda le religioni e chieda "rispetto": si tratta di semplice coerenza nel suo ruolo ecclesiastico. Se però nei fatti qualcuno tenterà di instaurare vincoli "informali", che salvaguardino le religioni dalle critiche e dalle battute che, invece, si possono dirigere al resto della società, bisognerà ricordare che l'espressione di un'opinione non può essere limitata dal fatto che qualcuno, da qualche parte, si dichiari offeso. Negli anni in cui chiunque, tramite la rete, può creare contenuti e diffonderli, sarebbe insostenibile porre dei limiti alla critica e alla satira, solo perché i seguaci di una religione sono più suscettibili rispetto ai membri di un partito o ai fan di una band di rock and roll.

In questo contesto va notato come, a una settimana di distanza dall'attentato alla redazione di Charlie Hebdo e, soprattutto, con la pubblicazione del primo numero successivo alla sparatoria, siano riprese, in alcuni Paesi, le proteste contro le "offese" alla figura del profeta Maometto. Si tratta di manifestazioni simili a quelle che già avvennero nell'ottobre 2005 a seguito della pubblicazione di alcune vignette sul giornale danese Jyllands – Posten, a inizio 2008, dopo la distribuzione del film "Fitna", nel 2011 e nel 2012, a seguito di alcune vignette proprio in Charlie Hebdo e nel settembre 2012, con la pubblicazione online del video "Innocence of Muslims". Come in quelle occasioni, più che pretendere che in altri Paesi si rispetti la libertà d'opinione nello stesso modo in cui la si rispetta qui, è necessario vigilare affinché in Occidente non si limiti la libertà d'espressione a seguito di proteste che avvengono altrove. C'è però da chiedersi se il problema maggiore, in paesi come Niger e Somalia, o in regioni come la Cecenia, sia davvero la pubblicazione di vignette su Maometto nelle pagine di un giornale francese, o se piuttosto non si tratti di un pretesto, per leader politici e religiosi, per riaffermare la propria autorità laddove la penetrazione dell'Islam radicale e fondamentalista potrebbe metterli fuori gioco.